…saper consolare!

 

Alcune tristi esperienze recenti mi hanno convinto della grande difficoltà che incontriamo quando ci troviamo davanti a persone che stanno attraversando momenti di prova, perché sofferenti nel loro corpo per gravi malattie o nella loro mente e nel loro cuore per gravi perdite.
È giusto, come figlie e figli di Dio, raccogliere l’invito ad occuparci degli altri ed in particolare a stare vicini a coloro che piangono, ma dobbiamo chiederci in quale modo lo facciamo. La nostra presenza e le nostre parole recano davvero consolazione, conforto, incoraggiamento oppure non fanno altro che aggravare una situazione di turbamento e di dolore?
I tre amici di Giobbe, alla notizia dell’impressionante serie di disgrazie che avevano colpito il loro amico, “partirono ciascuno dal proprio paese” animati dalle migliori intenzioni, infatti “si misero d’accordo per venire a confortarlo e consolarlo” (Giobbe 2:11). Poi espressero nelle tipiche forme del tempo la loro partecipazione al dolore dell’amico: “piansero ad alta voce, si stracciarono i mantelli e si cosparsero il capo di polvere…” (2:12). Infine “rimasero seduti per terra, presso di lui, sette giorni e sette notti; nessuno di loro gli disse parola…” (2:13).
Ecco la descrizione di una scena davvero toccante: tre uomini pienamente partecipi del dolore del loro amico, seduti accanto a lui per far sentire con la loro presenza il calore del loro affetto e della loro partecipazione, pronti anche a raccogliere un suo probabile sfogo che prima o poi sarebbe arrivato e che in effetti arrivò (Giobbe 3:1-26).
Questa lodevole situazione cambia radicalmente quando i tre amici cominciano a parlare.
Ironicamente, si potrebbe dire che persero una grande occasione per stare zitti.
Le loro parole sferzanti, talvolta saccenti ed arroganti, piene di giudizi e di pregiudizi finirono con lo sconfortare ulteriormente Giobbe e con il farlo sentire ancor più solo e pensare che erano venuti… “a confortarlo e a consolarlo”.
Giobbe ricevette conforto e consolazione soltanto finché i suoi amici rimasero in silenzio e, soprattutto, quando loro cessarono finalmente di parlare e poté ascoltare la voce del Signore!
Talvolta, visitando persone che stanno vivendo un difficile momento di prova, anche a noi può accadere di perdere una grande occasione per stare zitti.
Accade quando non sappiamo cosa dire ma vogliamo comunque “dire”, quando ci limitiamo ad espressioni umane e formali che non rendono onore al Signore in cui crediamo ed alle Sue promesse, quando ci lasciamo insensatamente trascinare dal desiderio presuntuoso di trovare noi una motivazione alla prova, come fecero i discepoli davanti al cieco nato (Giovanni 9:2), quando vogliamo metterci nei panni dell’altro senza averli mai prima indossati.
Quanto sarebbe bello (e davvero confortante e consolante!) se imparassimo a far parlare il nostro silenzio!
La nostra presenza già da sé esprime partecipazione ed affetto. E quando iniziamo a parlare, magari dopo aver raccolto uno sfogo, ricordiamoci sempre che chi è nella prova non ha bisogno di essere giudicato, ma incoraggiato ad ascoltare la voce del Signore che si fa udire “dal seno della tempesta”. E dobbiamo metterci bene in testa che noi possiamo favorire l’ascolto di quella voce, ma non possiamo nè surrogarla né, peggio ancora, sostituirla con la nostra voce!
Le lezioni che il Signore dà nella prova sono talmente intime e personali che qualsiasi intervento esterno non può che ostacolarne la ricezione.
Quando Dio ci ricorda, attraverso l’apostolo Paolo, che uno degli scopi della sofferenza è ricevere le Sue consolazioni per essere poi in grado di consolare “quelli che si trovano in qualunque afflizione” (2 Corinzi 1:3-5), vuole anche dirci che, se non abbiamo mai conosciuto momenti di prova e se, di conseguenza, non abbiamo mai personalmente ricevuto le Sue consolazioni, il dono di consolare non ci appartiene ancora.
Meglio allora rimanere seduti senza dire alcuna parola.

Paolo Moretti

Tratto con permesso da «IL CRISTIANO» aprile 2008

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