IL CRISTIANO PREOCCUPATO

Preoccupare significa: occupare antecedentemente; in riguardo allo spirito, prevenirlo inducendovi opinione vantaggiosa; predisporre, organizzare in anticipo.
Questo è un pericolo per il cristiano.
Intanto, il cristiano si preoccupa già con la preghiera, perché la sua natura ribelle lo porta ad anticipare Dio con le proprie richieste.
Ma pregare significa innanzitutto abbandonarsi completamente alla volontà di Dio, per seguire Cristo con assoluta fiducia, spinti da un amore irriducibile. Essa presuppone il nostro incontro con Dio, a prescindere da quello che possiamo chiedere o ricevere. È un bisogno prima di tutto dell’anima di unirsi al suo Creatore, al suo Padre, al suo Tutto.
La preghiera è rischiosa: dopo un pò ci accorgiamo che Dio è persona e che ci chiede qualcosa, e forse qualcosa che non ci aspettiamo.
Per l’uomo di preghiera Dio è il soggetto, non un oggetto.
Solo ad un dio impersonale puoi far dire quello che vuoi, e continuare a vivere la tua piccola vita, organizzarti tu un sistema morale più o meno buono, e vivere secondo tale legge umana, mentre se Dio è Persona, significa allora che tu ti rendi disponibile a Lui, e Lui ti può chiedere di tutto.
Abbiamo paura che Dio ci chieda dei sacrifici, delle rinunce, qualcosa che non concordi con le nostre scelte di vita, e allora è meglio che non parli proprio.
Se usiamo la preghiera come un mezzo per presentare a Dio ciò che vogliamo, allora questo sta a dimostrare la mancanza di fiducia in Dio.
In conseguenza alla nostra natura ribelle e presuntuosa, ci sono situazioni nella vita nelle quali possiamo cadere nella tentazione di anticipare i tempi di Dio con le nostre iniziative ed i nostri programmi, manifestando in questo l’indisponibilità ad attendere i tempi di Dio ed una limitata fiducia. Non si può agire e chiedere nel frattempo la benedizione di Dio. Per esempio, ci sono campagne evangelistiche sono semplicemente dei “mordi e fuggi” che mai sono voluti e guidati da Dio.
Preoccupare significa avere di sé un concetto più alto di quello che si deve avere.
“Che hai fatto?” chiese Samuele al re Saul. Questa domanda riecheggiò quel giorno in Ghilgal. Il richiamo di Dio davanti al peccato del re era arrivato.
Nonostante tutto, Saul si stava illudendo che quello che aveva fatto fosse corretto. Infatti cercò di giustificare il suo peccato mediante una scusa spirituale: non si può iniziare la battaglia senza aver prima implorato Dio.
Purtroppo Saul basò la scelta di offrire l’olocausto sulle sue impressioni: “vedevo che… Mi sono detto… mi sono fatto forza e ho offerto l’olocausto” (1Samuele 13:11-12). Agì stoltamente e disubbidì a un comandamento di Dio.
Quante volte corriamo il rischio di agire in base alle nostre impressioni. Queste non devono trovare spazio nel nostro servizio. Serve ubbidienza incondizionata a Dio senza valutazioni umane, che ci portano solo ad agire stoltamente. Dio non si serve della nostra presunzione, della nostra intraprendenza, della nostra solerzia. Non è Dio a dover adeguarsi ai tempi delle nostre attese; piuttosto, è la nostra attesa che deve saper entrare nella pazienza dei tempi di Dio.
Spesso torniamo a fidarci dei
propri criteri di giudizio, anziché convertirli a quelli di Dio che, ormai dovremmo iniziare a comprendere bene, sono totalmente differenti dalle logiche umane.
Dio prima di tutto si serve della nostra ubbidienza. Ubbidire, significa fare quello che Dio vuole. Tutte le volte che pensiamo di volere anticipare Dio con delle azioni disgiunte dall’ubbidienza, ricordiamoci di quello che accade a Saul. Un uomo doveva aspettare con fede. Ebbe fretta e fece ciò che non doveva. “Appena finito”, vide arrivare ciò che Dio aveva promesso. Cercò delle scuse. Per non aver saputo aspettare solo qualche minuto compromise una vita, un servizio, un cammino.
Questo accade quando non c’è unità con Dio.

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