QUANDO IL DOLORE E’ LA TUA PRIGIONE

Cosa potrebbe mai venir fuori di buono dalla sofferenza cronica?

Nel film “The Princess Bride”, il terribile pirata Roberts confronta la romantica sensibilità dell’eroina, la principessa Buttercup. Lei soffre per la perdita del suo unico grande amore, mentre lui la sgrida per la sua autocommiserazione. “La vita è dolore, Principessa, e chiunque le dica il contrario sta cercando di venderle qualcosa”.

Hai mai pensato che la vita fosse dolore? Che il futuro sarà più o meno una lunga sofferenza emotiva, fisica o relazionale?

Questo sentimento spesso si intensifica quando cresciamo e le nostre esperienze dolorose diventano da acute, croniche. Un dolore acuto può essere tremendo, ma scompare in un tempo relativamente breve. Ci rompiamo un osso, un bambino viene colto sul fatto a mentire, il nostro budget è sottoposto a pressioni inaspettate, i nostri genitori si fermano da noi dopo le vacanze per un tempo così lungo da superare un limite plausibile.

Ma il dolore cronico continua e sembra non avere mai una fine: il dottore ci diagnostica un’artrite reumatica; una figlia non sposata annuncia di essere incinta; ci troviamo con una montagna di debiti e perdiamo la casa; i nostri genitori anziani vengono a vivere con noi.

Il dolore acuto è come una notte in prigione. Il dolore cronico è come una condanna alla prigione a lungo termine senza una possibilità di liberazione.

Per mia moglie e me, il dolore cronico include rapporti familiari malsani a causa di un genitore alcolizzato. Include il prendersi cura di un altro genitore che si spegne poco a poco a causa del morbo di Alzheimer. Include anche vivere con una malattia incurabile.

Sia che le nostre sofferenze siano spirituali, fisiche, economiche o relazionali, molti di noi possono identificare una sorta di dolore cronico nella propria vita. Quando abbiamo pregato per avere sollievo, guarigione o liberazione e Dio non ha risposto come avremmo sperato, come perseveriamo? Approfondendo ancora la questione, come possiamo addirittura crescere attraverso un dolore cronico?

Un carattere conformato

All’età di 40 anni mi fu diagnosticato il cosiddetto “diabete mellito” (alcuni dissero che la diagnosi confermava la mia immaturità!). Abbiamo pregato per una guarigione e l’abbiamo perseguita, ma Dio deve ancora intervenire.

Così vivo una vita dipendente dall’insulina. Devo controllare attentamente il cibo che mangio e devo fare dei test agli zuccheri nel sangue, oltre ad iniettarmi insulina almeno quattro volte al giorno.

Senza una cura attenta, questa malattia cronica mi porterebbe a vedere distrutti i miei reni, a problemi di cuore, alla cecità o all’amputazione.

Odio il mio diabete. E’ la mia prigione. Ho lottato con il motivo per il quale Dio ha permesso questa sofferenza.

Ma nel lottare sono cresciuto. Dio ha usato e sta usando il mio diabete per sviluppare il mio carattere.

La mia esperienza è coerente con la Scrittura che insegna ripetutamente che cresciamo attraverso il fuoco della sofferenza. Il Signore corregge quelli che ama (Ebrei 12:5-6) e la disciplina spesso porta dolore (v. 11). Tuttavia vale la pena passare per questo processo per ottenere un risultato, almeno dalla prospettiva di Dio. E’ utile conformare il nostro carattere a quello di Gesù in molti modi concreti. A causa del diabete, vivo ogni giorno con un più grande senso di dipendenza da Dio. Non do più per scontato una lunga vita o la vista o la capacità del mio sangue di rimarginare le ferite; accetto la mia vita come un dono. Ho imparato quanto poco controllo io abbia, non solo sulla mia salute, ma sulla maggior parte delle cose. Uno dei modi nei quali questa fresca dipendenza si esprime è la preghiera: parlo con dio molto più di quanto facessi nei giorni della mia indipendenza e lo ringrazio per cose che prima non avevo mai considerato degne di ringraziamento. Il cambiamento nella mia vita di preghiera ha portato ad una maggiore intimità con Dio attraverso una dipendenza da lui momento per momento. Così come Asaf nel Salmo 73:25, ho imparato a dire “Tu sei tutto ciò che desidero”.

Il diabete mi ha anche obbligato ad essere più disciplinato. E’ iniziato con una disciplina fisica: anche se l’esercizio fisico ed il controllo del peso non mi possono curare, essi possono migliorare la qualità della mia vita. Ho visto queste discipline fisiche influenzare anche le mie discipline spirituali. Così come sto crescendo nel mio impegno verso le pratiche fisiche che arricchiscono la mia salute, sto crescendo nelle pratiche spirituali che nutrono il mio spirito.

Dio ha anche usato la mia sofferenza cronica per rendermi più compassionevole nei confronti degli altri e più paziente con me stesso. Prima di avere il diabete, io vedevo le altre persone che soffrivano in modo cronico come persone che dovevano solo riuscire a “superarlo”e marciare verso la vittoria spirituale. Il diabete mi ha umiliato. Mi ha mostrato che vivere vittoriosamente in “prigione” non è solo una questione di citare un versetto o di psicoanalizzarsi per tirarsi su. Può essere un viaggio quotidiano lungo e stancante.

Un basso tasso di zucchero nel sangue, che è una condizione comune ai diabetici dipendenti dall’insulina, mi può fare essere piagnucoloso, pignolo, e generalmente difficile da sopportare. Attraverso questi incontrollabili cambiamenti di umore sono diventato più compassionevole con mia moglie (per lo meno è quello che mi ha detto lei), quando fattori fisici come gli ormoni influenzano il suo benessere emotivo.

Odio la mia prigione, e se Dio aprisse la porta, sarei felice di uscirne libero, ma nel riflettere su come il mio carattere è cresciuto a causa sua, sono costretto ad essere d’accordo con il salmista: “E’ stata un bene per me l’afflizione subita” (Salmo 119:71).

Un ministero esteso

Quindi sono confortato nella mia sofferenza quando vedo i suoi effetti positivi sul mio carattere e sui miei rapporti con Dio. Sono anche confortato nell’osservare come Dio usi la mia sofferenza per influenzare positivamente un pubblico più vasto.

La storia del Vecchio testamento di Giuseppe ci fa capire questa verità (Genesi 37-50). Giuseppe trascorse più di 20 anni in varie situazioni dure ed in prigione. Il costo emotivo fu così profondo che, dopo una conversazione con la sua famiglia, non potè più reprimere le lacrime. Alla fine, tuttavia, Giuseppe riuscì a superare il suo conflitto per abbracciare gli scopi salvifici di Dio nel suo dolore:

“Voi (i fratelli di Giuseppe), avete pensato del male

contro di me, ma Dio ha pensato di convertirlo in bene

per compiere quello che oggi avviene, per conservare

in vita un popolo numeroso (Gen. 50:20).

Giuseppe comprese che uno degli scopi di Dio nella sofferenza non è rimuoverla, ma darle significato, un significato che trascende le nostre vite individuali e si estende alla vita degli altri.

L’Apostolo Paolo proclamò che Dio «ci conforta in ogni nostra afflizione, affinché, mediante la consolazione con la quale siamo noi stessi da Dio consolati, possiamo consolare quelli che si trovano in qualunque afflizione» (2 Corinzi 1:4).

Le descrizioni delle sofferenze di Paolo (2 Corinzi 6:4-10; 11:23-29) ci convincono del fatto che lui non parlava in modo leggero delle esperienze difficili per le quali passò, ma che vedeva gli scopi redentivi di Dio nel suo dolore.

Dopo molte preghiere di supplica per una guarigione fisica dal diabete, finalmente arrivai a pregare così “Bhè, Dio se non mi vuoi guarire, almeno usa questa malattia per servire a qualcun’altro”.

Diversi anni dopo, avendo da tanto tempo dimenticato questa preghiera, stavo parlando ad una conferenza missionaria per giovani. In un seminario stavo facendo riferimento al trasmettere la sfida che la mia malattia aveva costituito per mia moglie e per me, portando siringhe, insulina e vari altri mezzi in posti come Cuba, l’Afganistan, la Colombia o lo Sri Lanka.

Alla fine del seminario, una ragazza di 17 anni venne velocemente davanti. Aveva la voce rotta mentre raccontava la sua storia. Aveva sempre creduto che Dio la chiamasse in missione all’estero, ma pochi mesi prima di questa conferenza le era stato diagnosticato il diabete mellito. Aveva paura che la sua chiamata fosse stata resa vana.

Poi disse: “Ma poi ho sentito come lei riesce a svolgere l’opera missionaria anche con il diabete e la sua storia mi ha dato la speranza che Dio può ancora usarmi”. Mi ricordai della preghiera che avevo fatto tanti anni prima e ringraziai Dio che la mia condizione cronica aveva potuto incoraggiare questa giovane a vivere con la propria.

Questa storia si ripete spesso tra i seguaci di Cristo.

· Elisabeth fu violentata da bambina, così iniziò un gruppo di sostegno per persone che avevano subito abusi nella sua chiesa.

· Ernie testimoniò nel reparto di chemioterapia dove stava ricevendo cure contro il cancro e condusse altri a Cristo prima di morire.

· Tony vede il suo periodo di disoccupazione come un’opportunità per incoraggiare delle persone molto scoraggiate.

· Lee descrive la sua partecipazione nel sostegno della lega alcolisti come la sua opportunità per collegare delle persone che stanno lottando con la grazia di un Dio che perdona.

· Un parente malato di mente, un rapporto irrisolto, una montagna di debiti personali, qualsiasi sia il tipo di dolore che affrontiamo possiamo affrontarlo dandogli nuovo significato nel pregare “Signore, usa il mio dolore. Fa qualcosa di buono attraverso questa condizione cronica”.

Un appetito per l’Eternità

Il dolore cronico può anche dirigersi verso gli scopi eterni di Dio. Nella sua seconda lettera ai Corinzi scritta nella sofferenza, Paolo scrisse:

Perciò non ci scoraggiamo; ma, anche se il nostro

Uomo esteriore si va disfacendo, il nostro uomo interiore

Si rinnova di giorno in giorno. Perché la nostra momentanea,

leggera afflizione ci produce un sempre più grande,

smisurato peso di gloria, mentre abbiamo lo

sguardo intento non alle cose che si vedono, ma a quelle

che non si vedono; poiché le cose che si vedono sono per

un tempo, ma quelle che non si vedono sono eterne.

La sofferenza fece si che Paolo, che era abituato alla vita di prigione di tutti i tipi, vivesse anticipatamente il cielo.

«Infatti per me il vivere è Cristo e il morire guadagno», scrisse dalla prigione (Filippesi 1:21).

Le sue sofferenze temporanee confermarono che la sua vera e duratura cittadinanza era da un’altra parte (Filippesi 3:20). Io sospetto che fosse ispirato dall’esempio di Gesù che «per la gioia che gli era posta davanti sopportò la croce» (Ebrei 12:2).

Le canzoni che noi chiamiamo “Spirituals” furono scritte da persone che vivevano nell’oppressione e nella schiavitù. Le loro parole riflettono un’anticipazione del cielo che aiutavano questi sofferenti a sopportare le loro dure esperienze quotidiane. Le loro vite si basavano su Giovanni 16:33 «Nel mondo avrete tribolazione; ma fatevi animo, Io ho vinto il mondo».

Come risultato essi cantavano durante il tempo della propria cattività.

Presto avremo finito di soffrire in questo mondo,

questo mondo, questo mondo.

Presto avremo finito di soffrire in questo mondo,

stiamo per andare a vivere con Dio.

Non ci saranno più pianti e gemiti. Non più pianti

e gemiti. Non più pianti e gemiti, stiamo per andare

a vivere con Dio.

Il dolore e i problemi cronici ci ricordano che la vita implica delle perdite: la perdita di una relazione, la perdita della libertà dal punto di vista fisiologico, la perdita di una sicurezza finanziaria. L’anticipazione del cielo mi rafforza perché mi dice che verrà il giorno in cui non ci saranno più perdite e saremo accolti nella Sua presenza.

Nel lottare quotidianamente con il diabete, una visione del cielo mi permette di ridere anticipatamente per la dolce festa di cui godrò lassù che sicuramente includerà gelati, zucchero filato e dolci vari. Ad un livello più profondo, tuttavia, ogni iniezione, esame del sangue e nuova complicazione mi ricorda che il mio uomo esterno si sta disfando.

Guardare la mia vita attraverso le lenti dell’eternità mi obbliga a farmi domande importanti come: Sto coltivando l’uomo interiore?

Sto vivendo per le cose eterne?

Sto, come Gesù guardando oltre le difficoltà verso la gioia posta davanti a me?

So che verrà un giorno nel quale riceverò il mio corpo risuscitato e sarà la fine di tutte le infermità temporali. So che verrà un giorno nel quale Gesù asciugherà tutte le nostre lacrime provenienti da relazioni rotte, una scarsa salute, l’impatto della povertà, i risultati di pessime scelte. Per ora, tuttavia, io affermo la speranza del cielo perseverando e chiedendo a Dio la grazia di trasformare la mia prigione cronica in opportunità che mantengono il mio sguardo fisso sul premio eterno.

Dal dolore alla passione

Forse la più grande lezione che ho imparato dal mio dolore cronico è stata scoprire il legame tra la passione e la sofferenza. Tutti noi vorremmo essere più appassionati di Cristo. Ho imparato che la passione si sviluppa partendo dal dolore.

Il verbo pascho (dal quale otteniamo la nostra parola passione) significa letteralmente “soffrire” come nella Passione di Cristo.

Il dolore cronico mi ha insegnato a pregare “Signore, per favore, usa questa prigione, questa condizione cronica per rendermi più zelante nel conoscerti. Per favore, trasforma la mia sofferenza in passione”.

Prego che lo zelo continui per permettere al dolore di confrontare la mia autocommiserazione, l’amarezza, la rabbia, l’impazienza e tanti atteggiamenti che sono peccato. Voglio essere come Gesù che “imparò l’obbedienza dalle cose che soffrì” (Ebrei 5:8). Io prego che lo zelo permetta al dolore di spingermi verso l’esterno, verso il continuare il ministero nei confronti di altre persone. Voglio perseguire la compassione che letteralmente significa soffrire insieme agli altri.

E prego per uno zelo in continua crescita per le cose eterne. Non voglio rilegare la speranza del cielo agli anni della mia vecchiaia. Al contrario, voglio che la mia prigione cronica quotidiana mi insegni cosa significa sopportare ora per la gioia che è posta davanti a me (Ebrei 12:2). Il dolore sembra un percorso poco desiderabile per ottenere la passione e se esiste un sentiero più corto, spero che tu lo imbocchi. Ma le vie di Dio spesso implicano delle “prigioni”. Prego che tu perseveri attraverso le tue e che tu permetta a Dio di compiere i Suoi scopi redentivi nella tua vita.

ESPRESSIONI DI DOLORE

A volte il viaggio della fede può essere più una corsa sulle montagne russe che una serena passeggiata nel bosco, specialmente quando stiamo affrontando difficoltà croniche o dolore per molto tempo. Attraverso questa corsa, ho osservato queste reazioni emotive in me stesso e negli altri.

Rabbia

Dai 12 ai 18 anni ho affrontato 4 operazioni, 7 ossa rotte, e un certo numero di altri traumi. Quando mi sono fratturato un disco della colonna all’età di 42 anni, inveii contro Dio: “Ne ho abbastanza!” Ci permette di inveire, ma spesso non risponde.

Autocommiserazione

Dopo che mi fu diagnosticato il diabete, vidi una torta di zucca scontata e scoppiai a piangere. Mia moglie protestò: “Ma a te non piace neanche la torta di zucca”. Io risposi “Sì, ma non la potrei mangiare neanche se la volessi”.

L’autocommiserazione raramente è razionale.

Confronto

Quando soffriamo spesso diciamo “Perché devo affrontare questo dolore quando per quell’altra persona è stato tutto così facile?” I Salmi 22, 37, 49, 73 e 88 illustrano tutti come questa lotta sia stata reale anche nella vita degli scrittori del Vecchio Testamento.

Dolore

Ho un amico il cui figlio ha subito 10 operazioni per correggere un difetto congenito in un osso della gamba. L’ultima operazione sembra aver funzionato, eppure sta sperimentando ancora molto dolore nel capire ciò che perso durante i primi 18 anni della sua vita, molti dei quali ha passato usando gesso e stampelle.

Scoraggiamento

Nel Salmo 73, Asaf scrive parole familiari a chiunque abbia affrontato un dolore cronico: “I miei problemi erano così grandi che mi sono quasi allontanato; me ne sono quasi andato; ho quasi abbandonato la mia fede” (mia parafrasi).

Chiunque affronti il dolore cronico, problemi e sofferenza lotterà con qualcuna di queste emozioni. La famiglia a gli amici, lo scrivere un diario, la lettura della Bibbia, la preghiera, i gruppi di supporto ed i consulenti possono tutti aiutarci a cercare la grazia di cui abbiamo bisogno per affrontare il nostro dolore.

Nel corso del tempo impariamo a lasciare andare i comandi, a lasciare andare l’amarezza.

Quando il nostro cuore viene raffinato, impariamo ad invitare Dio a cambiare i nostri atteggiamenti e la nostra prospettiva.

In alcuni giorni sperimenteremo la vittoria, in altri lotteremo.

A volte la cosa migliore che possiamo fare è metterci le cinture di sicurezza della fede, essere saldi e credere che dio alla fine ci porterà alla fine della corsa, un luogo dove il viaggio finalmente avrà un senso.

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