L’AUTOCOSCIENZA

L’autocoscienza si esprime come apprezzamento di sé come assoluto originario e intrascendibile. L’autocoscienza si presenta come individuo e si esprime attraverso l’appetito, ovvero il desiderio di dominare e possedere, a soddisfare i propri desideri nel mondo e ad affermare la propria volontà come
volontà autonoma.
Egli indirizza su di sé la propria attenzione, non può dividersi in due parti, delle quali una sia l’osservatore, l’altra ciò che viene osservato. Necessariamente, lo “sguardo interiore” deve rivolgersi verso qualcun’altro. L’auto-osservazione è un’operazione del tutto illusoria. Si può solo prendere in esame ciò che si crede di essere: le proprie immagini, le proprie rappresentazioni, i suoi ricordi. Quando si afferma: “io sono così”, in realtà intende dire: “io penso di essere così”, ovvero “questa è l’idea che ho di me stesso”.
Il nostro io costituisce la personificazione davanti ai nostri occhi interni del nostro esistere come esseri unici, irripetibili, distinti dagli altri oggetti e persone che ci circondano.
L’autocoscienza compie una percezione di un animo materialista o positivista, maniaco della scienza sperimentale, abbacinato dalle illusioni dei sensi e schiavo della sensualità, “l’uomo carnale”.
L’autocoscienza fa nascere quell’amore di sé falso ed egoistico, quell’autoreferenzialità, quell’assolutizzazione o divinizzazione del proprio io, che fa dell’uomo un rivale di Dio mettendolo in conflitto con Lui, e gli impedisce di riconoscere la trascendenza di Dio e quindi di sottostarGli umilmente e di salvarsi. L’uomo con l’autocoscienza tende a divagare, a fare considerazioni oziose, parla di ciò che pensa piuttosto di ciò che prova, si limita a riflettere sui propri contenuti interiori piuttosto che vivere tali contenuti, forse sta tentando di sottrarsi a una situazione spiacevole che avverte confusamente al suo interno. Ma continuare su questa strada, significa perdere tempo, fuggire la realtà, cioè fuggire alla verità che l’uomo non nasce buono per natura ma nasce malato.
L’autocoscienza crea l’automatismo che è una rigidezza che non porta alcun segno di Cristo in giro per il mondo e tanto meno in casa. Oppure, l’automatismo provoca una rigidezza che, in vario modo, ci rende farisei, vale a dire tende a fare del nostro atteggiamento il paradigma per gli altri: la misura della nostra esigenza, che diventa perciò pretesa, è la misura della bontà degli altri, del valore degli altri, della utilità della casa o della utilità dei rapporti. Oppure porta a un farisaismo che in fondo – di fronte alle nostre licenze, di fronte alle libertà che ci prendiamo e che scandalizzano la casa o che scandalizzano i rapporti o che ci isolano dai rapporti, ci rendono inutili, futili, vani, senza produttività nei rapporti – ci fa dire: “Beh, cosa c’è di male?”, o: “Io, cosa ci devo fare; in fondo, cosa ci devo fare?”; che, se non è un modo per giustificarsi teorico, è un modo per giustificarsi di fronte a sé stessi. Un automatismo che rende rigido tutto e senza gusto il vivere spirituale, senza alcun sàpere, senza alcun sapore, la vita del nostro spirito; oppure è un automatismo farisaico che giustifica il proprio comportamento.
Se andiamo a Dio chiedendoGli di porre una coscienza di Cristo al posto dell’autocoscienza, Egli lo farà fino a che non avremo imparato a dimorare in Lui. La grande soluzione è: “Venite a Me”. Sono queste parole che mettono alla prova la profondità della nostra realtà di vita, sia intellettualmente che moralmente e spiritualmente. Infatti dove questa realtà non è genuina, ci ingolferemo nelle discussioni invece di andare a Lui.

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