Studi biblici: la persecuzione in Italia di Roberto Bracco

… l’Iddio nostro, al quale serviamo è potente a liberarci… (Daniele 3:17).

La frase dei tre fratelli ebrei è stata, durante il periodo della persecuzione, il motto ed anche la regola spirituale delle comunità d’Italia.

Ogni chiesa ed ogni fedele hanno compiuto il proprio cammino con la convinzione profonda che Iddio era potente da manifestare aiuto e liberazione in ogni prova. Quindi le prove, i dolori, le persecuzioni non rappresentavano, per i cristiani, un segno della debolezza od impotenza di Dio, ma soltanto una manifestazione dei suoi piani e della sua volontà.

Sempre, infatti, di fronte ai feroci assalitori i cristiani hanno ripetuta la testimonianza di Sadrac e dei suoi compagni: “L’Iddio che serviamo è potente da liberarci.”

Quante volte abbiamo visto davanti a noi funzionari schiumanti di rabbia, quasi folli d’ira, che, sembrava, volessero stritolarci, annientarci! Quante volte ci siamo sentiti gridare in faccia le loro terribili minacce; quante volte cioè si è presentato agli occhi nostri lo spettacolo di una potenza umana, di una potenza infernale che sembrava schiacciarci!… Ci siamo sgomentati o abbiamo riconosciuta la grandezza di questa diabolica potenza? No! Abbiamo continuato a ripetere, di fronte ai persecutori, ma soprattutto nell’intimo del nostro cuore: “Iddio è potente a liberarci!”

Questa convinzione e questa testimonianza non sono state però mai indipendenti dalla convinzione espressa nella seconda frase dei tre compagni ebrei: “Se Iddio non ci libera, noi faremo ugualmente la Sua volontà.”

Egli è potente a liberarci, ma se, per l’adempimento dei suoi piani gloriosi ed eterni, ritiene più opportuno lasciarci nel fuoco della persecuzione, noi continueremo ugualmente ad onorare e glorificare il Suo nome con fede e dedizione.

In questi termini la nostra testimonianza risultava completa e la nostra convinzione sana e perfetta. Ci liberi o non ci liberi, avanti; avanti con il Signore. E tutti insieme ripetendoci queste dolci e potenti parole, abbiamo proseguito il nostro cammino.

L’Iddio fedele molte e molte volte ci ha mostrato e dimostrato che era potente da compiere liberazioni miracolose in nostro favore e queste ripetute dimostrazioni furono sufficienti in quei giorni per ricordarci che quando Egli non ci liberava doveva adempiere, nella nostra sofferenza, un piano per la sua gloria e per la nostra edificazione.

Personalmente ebbi modo di esperimentare ripetutamente l’intervento miracoloso di Dio e di constatare perciò che tutto si svolgeva secondo i piani intelligenti che il Signore doveva portare ad esecuzione. Fra le tante liberazioni ne ricordo una realizzata lontano dalla mia città. Fui invitato a Terni, dove era sorta una piccola comunità piena di fervore e di entusiasmo cristiano. Accettai l’invito e mi recai in quella cittadina assieme ad una sorella della comunità. Non appena giunti, ci recammo presso una famiglia di fedeli che era in attesa del nostro arrivo e lì iniziammo una conversazione cristiana. Eravamo là soltanto da poco tempo, forse 30 minuti, quando giunse un giovane fratello tutto trafelato ad avvertirci che un notevole numero di agenti di pubblica sicurezza avevano invaso diverse abitazioni di fedeli e dovunque domandavano di me. Mi ricercavano attivamente per arrestarmi. Da chi erano stati informati del mio arrivo non ho potuto mai saperlo, ma una cosa seppi in quella occasione e Cioè che ero ricercato.

Senza indugio lasciai quella casa e mi misi in giro per la città unitamente alla sorella che mi aveva accompagnato. Peregrinammo lungamente aspettando fiduciosamente gli eventi, ma la trepidazione ci riscaldava il cuore; eravamo giustamente in ansia per i fedeli presso i quali la polizia mi ricercava.

Camminando in tutte le direzioni, cercai di stringere iI cerchio dei miei passi verso la casa della famiglia che rappresentava il centro della comunità del luogo. Giunsi nei pressi di quella casa e cercai di osservare da lontano quello che stava avvenendo. Non riuscii a notare nulla e perciò mi decisi, avanzando cautamente, di approssimarmi alla casa. La zona era quasi deserta ed io con apparente noncuranza ed indifferenza presi a camminare verso il portoncino

Giunsi davanti all’ingresso: nulla! Tutto silenzio Non sapevo se entrare o allontanarmi; all’improvviso presi la decisione di accostarmi alla finestra che era a fianco del portone, alla distanza forse di un metro per cercare di osservare, attraverso le imposte chiuse quello che avveniva nell’interno. Con la massima cautela mi avvicinai e cercai di guardare nell’interno. Le imposte erano molto serrate ed il mio sguardo non riusciva a penetrare attraverso le fessure , ero intensamente concentrato nel mio intento, quando improvvisamente mi trovai circondato da un folto gruppo di guardie. Erano venti? Erano trenta? Non potrei dirlo ma ricordo chiaramente che erano moltissime. Mi erano giunte alle spalle senza che me ne accorgessi; perché ero profondamente intento a superare l’ostacolo delle imposte per poter vedere quello che va nell’interno della casa.Mi voltai: le guardie erano intorno a me; eravamo assolutamente soli in quella zona. Non mi scoraggiai, anzi presi a camminare; attraversai il cerchio guardie; mi allontanai, mi persi nuovamente nella città lontano da loro e dalla loro rabbia.

Che cosa era avvenuto? Non so; ma io credo che le guardie mi abbiano guardato senza vedermi; mi abbiano circondato senza accorgersi che io mi allontanavo indisturbato attraversando le loro file. Si, l’Iddio nostro è potente da liberarci; da liberarci individualmente, come ha fatto tante e tante volte verso di me e verso tutti i fedeli durante la persecuzione; ed anche da liberarci collettivamente, quando con questi mezzi intendeva glorificare il Suo nome. Quante volte la polizia credeva di averci nel pugno mentre noi gli uscivamo dalle dita in maniera miracolosa! Quante volte era costretta a consumarsi di rabbia a causa dei metodi meravigliosi che Iddio usava per nasconderci agli occhi di quanti ci combattevano!

Ricordo, fra le molte memorie, una liberazione potente quanto graziosa.Si teneva una riunione di culto a notte avanzata nel fondo di una campagna posta nell’estrema periferia della città. I fedeli conoscevano il luogo, perchè era stato usato molte volte per lo stesso scopo e quindi si trovarono raccolti per l’ora stabilita.

Il buio di una notte senza luna circondava i fedeli di una densa cortina. Iniziarono gli inni sommessi…

All’improvviso, cosa strana, due, tre, cinque, otto piccole luci si accesero in mezzo al gruppo. Erano fuochi di sigarette. I fedeli compresero che diversi inconvertiti si trovavano in quel medesimo luogo, ma non furono colti da preoccupazione; la riunione continuò regolarmente. Dopo gli inni, la preghiera; dopo la preghiera, ancora un inno; poi le testimonianze, la predicazione, un inno, una seconda preghiera, ed infine la riunione si chiuse.

Tutti presero la via del ritorno e in ordine sparpagliato raggiunsero nuovamente la città per avviarsi alle proprie abitazioni.

Una settimana dopo venimmo a sapere, in maniera veramente miracolosa, che un gruppo di guardie, inviate espressamente per arrestare i fedeli, erano state presenti alla riunione senza poter eseguire l’ordine ricevuto.

Esse avevano vagato lungamente per le campagne e finalmente, guidate anche dalla voce, che, benché lieve veniva portata dal silenzio della notte, erano giunte in mezzo al gruppo. Prima di procedere all’operazione di polizia avevano voluto ascoltare: i cantici li commossero, le testimonianze e le preghiere suscitarono un sentimento di riverenza nei loro cuori, poi giunse la predicazione che li compunse. Iddio li vinse ed essi si ritrovarono assieme alla fine della riunione decisi di tornare ai superiori solo per annunciare che l’operazione era stata infruttuosa.

Si, l’Iddio nostro è potente da liberarci!

La certezza in questa potenza era il nostro conforto quando la liberazione tardava o non veniva. Dicevamo tutti nell’intimo del nostro cuore: “Iddio potrebbe liberarci; se non ci libera, è soltanto perché ha un piano glorioso da adempiere, oppure perché vuole provare la nostra fedeltà verso il Suo nome”. Questo pensiero intimo ma solido ci dava forza per ripetere di fronte agli assalitori: “Anche se il Signore non ci libera, noi continueremo a fare fermamente la Sua volontà”.

E Iddio veramente permise, in quell’epoca, delle prove che, considerate oggi, appaiono ben dure. Dico: “considerate oggi” perché ieri, mentre le attraversavamo, ci sembravano cose normali e quasi di poca importanza: la virtù della grazia di Dio ci fortificava per sostenere e superare ogni cosa con facilità.

Ma oggi, volgendo lo sguardo indietro, possiamo vedere la profondità della prova e possiamo rendere lode a Dio che ci ha aiutati per affrontarla vittoriosamente nel Suo nome.

Intere famiglie sono vissute smembrate per anni ed anni; decine e centinaia di fratelli si sono consumati nell’esilio o nelle prigioni. Posizioni sociali rovinate, salute distrutta, affetti calpestati: queste sono state le conseguenze della persecuzione, quando Iddio, per glorificare il Suo nome e per adempiere i Suoi piani meravigliosi, non ha voluto manifestare una liberazione dalla prova.

Oggi possiamo riconoscere che tutto fu per il nostro bene e che Iddio ha sempre agito con sapienza infinita; ieri ci bastava sapere che Egli era potente da liberarci per aver coraggio di servirLo anche se Egli non ci liberava.

Qualche volta la prova era prolungata, spinta fino al martirio, ma anche in quella i figliuoli di Dio sapevano ripetere: “Se non ci libera, Lo serviremo ugualmente”.

Ricordo di un caro fratello della nostra comunità a nome I.. Egli accettò il Signore nel periodo della persecuzione. Tutti coloro che facevano una decisione per Cristo, in quell’epoca, erano pronti e risoluti per affrontare le lotte ed i combattimenti. Anche questo fratello, pieno di zelo e di entusiasmo cristiano, era pronto a soffrire per il Maestro.

Veramente la sofferenza non si fece attendere fu arrestato e subito rimpatriato assieme alla sua famigliuola. Egli aveva, nella nostra città, una discreta posizione lavorativa, ma gli furono tolti lavoro, casa, residenza e fu mandato al suo paese nativo ove era sprovvisto di ogni cosa; quindi fu ridotto alla miseria.

Questo fratello non si scoraggiò, anzi subito incominciò ad evangelizzare Cristo ai suoi paesani. Egli accettò quella prova come adempimento del piano divino che voleva la salvezza delle anime del suo paese. In poco tempo il Signore raccolse nel Suo ovile un discreto numero di pecore erranti: una piccola comunità sorse in quella sperduta località montana.

Quest’opera suscitò la reazione violenta delle autorità politiche del luogo. Queste tramarono una congiura infernale contro il fedele servitore di Dio e lo fecero arrestare. Fu fatto comparire, sotto accuse maligne, davanti al terribile tribunale fascista per la difesa del regime e lì, senza potersi difendere, fu condannato a cinque anni di prigione. Un’amnistia ridusse la prigione a tre anni e quindi per tre anni il fedele fratello fu rinchiuso in una orrida e malsana prigione delle Marche, ove, fra l’altro, fu sottoposto alle angherie del cappellano carcerario, che in Italia rappresenta una terribile autorità nel seno delle prigioni.

Nella prigione egli contrasse una grave malattia che in quell’ambiente favorevole ebbe possibilità di svilupparsi progressivamente.

Giunse il giorno della liberazione; questo fratello fece ritorno alla sua famiglia, al suo paese e, naturalmente, fece anche ritorno a coloro che avevano accettato Cristo per Ia sua testimonianza. Egli riprese insomma la sua attività cristiana ripetendo con Paolo: « … Io non fo conto di nulla e la mia propria vita non mi è cara ».

Ma la sua attività fu interrotta violentemente ancora una volta: arrestato ed esiliato, si trovò nuovamente lontano dai suoi, dal suo lavoro. Fu assegnato ad una colonia confinaria e sottoposto a lavoro forzato. Per altri tre anni il suo fisico continuò a logorarsi nella malattia e nelle privazioni.

Quando fece ritorno al suo paese, era ormai l’ ombra di se stesso; ma se la sua carne era consumata, il suo spirito era ancora più ardente per il servizio del Maestro

Portò di nuovo l’entusiasmo del suo esempio alla piccola comunità, infiammando i fratelli con la benedizione del suo ministerio.

Fu arrestato di nuovo e letteralmente gettato a marcire in una prigione; senza processo, senza accuse lo lasciarono languire in una cella orrida… Giorni e giorni trascorsero sopra di lui, mentre la malattia lo consumava e lo faceva soffrire. Un giorno gli aguzzini si accorsero che in quel povero corpo la vita stava per spegnersi: lo liberarono. Il loro non fu un atto di amore o di pietà ma soltanto azione di calcolo. Preferirono non assumersi la responsabilità della sua morte.

I familiari si recarono a ritirarlo; fu portato in casa, adagiato in un letto. Non c’era più vigore in quel corpo distrutto, ma lo spirito era potenza per la gloria di Dio ed infatti dopo pochi giorni, continuando a lodare costantemente il Signore, questo caro fratello partì da questa terra per andare con Colui che aveva amato più della sua vita.

Anche se non ci libera…

In un paesetto a poca distanza dalla nostra città era sorta una piccola comunità molto zelante ma molto perseguitata. Andavamo frequentemente a visitarla ed ogni volta era necessario raggiungere i fedeli arrestati dalla polizia o malmenati ferocemente dalla popolazione. Un giorno le autorità locali, in seguito ad ordini superiori, arrestarono un fratello della piccola comunità assieme alla sua figliuola e li menarono, ambedue, nelle prigioni della nostra città. Questo fratello non era giovanissimo ed era sofferente di cuore, la sua figliuola era una giovane fanciulla di circa venti anni.

Furono trattenuti lungamente in prigione e lì, privo dell’aria necessaria e delle necessarie cure, questo fratello ebbe un aggravamento del suo male. Nessuna misericordia fu usata nei suoi confronti, anzi, condannato all’esilio, fu inviato in un paesetto lontano e inaccessibile, mentre la figliuola, condannata alla medesima pena, fu inviata in altra località separata. La polizia volle privare un malato dell’assistenza della figliuola ed una fanciulla della protezione del padre.

Essi non si scoraggiarono e, benché la lontananza reciproca, la lontananza dalla famiglia, la malattia rappresentassero una dura prova, continuarono a realizzare nel loro cuore che Iddio era potente da liberarli e che quindi se non li liberava voleva glorificare in modo diverso il Suo nome.

La giovanissima sorella si trovò sola, in un mondo ostile, lontana dai suoi, separata da suo padre. Le benedizioni di Dio rappresentavano il conforto della sua vita e la presenza di Gesù la sua dolce compagnia; mentre la preghiera era l’unico mezzo che le permetteva di sentirsi anche vicino ai suoi, presentandoli al trono della grazia divina.

Una sera, come di consueto, sola nella sua camera, si coricò: sognò un dolce ma duro sogno.

Si vedeva assieme a suo padre e uniti percorrevano un lungo sentiero; la compagnia desiderata era dolce e piacevole, ma, ad un tratto, suo padre la lascia e prende una nuova strada ed ecco che ella si accorge che il terreno sotto i suoi passi è difficoltoso, mentre quello sul quale cammina suo padre è piano. La sua strada appare piena di sassi e fiancheggiata di spine, quella invece del suo caro genitore livellata e fiancheggiata di fiori.

Suo padre si allontana sempre più rapidamente da lei e per quel piacevole sentiero sale, sale, sale sempre più in alto.

Ella lo chiama e quasi lo supplica di tornare indietro per unirsi a lei che non vuol rimanere sola, ma suo padre continua a salire e ad allontanarsi…

La cara sorellina si sveglia perplessa. Non sa se accettare quel sogno come un messaggio divino; ma ben presto ogni dubbio viene superato dalla realtà; ed ella riceve la ferale notizia che suo padre ha lasciato questo mondo pieno di spine e difficoltà per salire la strada della gloria verso il cielo.

Lontano dalla figliuola, lontano dalla famiglia, il caro fratello ha continuato il combattimento della fede ripetendo fino alla fine: “Egli è potente da liberarmi, ma anche se non mi libera, io glorificherò il Suo nome”.

Oggi che gli anni hanno allontanato questi episodi traboccanti di eroismo spirituale, noi possiamo riconoscere meglio l’aiuto onnipotente di Dio, che non si è manifestato sempre mediante la liberazione, ma che è stato in ogni circostanza efficace per sorreggere i combattenti nel cimento e nella prova.

Or noi sappiamo che tutte le cose cooperano al bene

Tutte le cose cooperano al bene…

Noi cristiani accettiamo incondizionatamente il principio che la Bibbia, cioè la Parola di Dio, è verità.

Questa fiducia viene esternata nelle nostre testimonianze, viene codificata dai nostri articoli di fede, viene sostenuta nelle nostre polemiche. Si, noi crediamo che la Bibbia è verità.

Quando però le Scritture affermano le particolari verità proclamate da Dio, noi, proprio noi cristiani, cominciamo a vacillare. Cioè siamo forse disposti e pronti ad accettare e credere a determinate verità ma non siamo altrettanto pronti a credere ad altre verità. Forse ci apriamo per credere a quelle verità, teoriche o pratiche, che sono congiunte alla consolazione, alla gioia, alla benedizione, ma non siamo disposti ad accettare quelle verità che ci parlano di dolore, di sofferenza, di prova.

L’affermazione dell’apostolo Paolo nell’epistola ai Romani fa parte di quest’ultima specie.

Tutte le cose cooperano al bene…

E’ facile credere a questa dichiarazione quando il nostro sentiero è cosparso di petali profumati, ma, purtroppo, non è altrettanto facile credere quando davanti a noi si presentano circostanze minacciose: persecuzioni, dolori.

La verità però rimane sempre verità, indipendentemente dall’attitudine che noi assumiamo di fronte ad essa, e noi possiamo goderne il beneficio ineffabile nella misura che l’accettiamo umilmente nella nostra vita.

Molti, oggi, non credono alla Bibbia ed anzi la combattono accanitamente, ma non per questo la Bibbia cessa di essere verità; l’unico risultato dei nemici di essa è quello di perdere le benedizioni che la Bibbia offre a tutti gli uomini.

Sentiamo ripetere spesso: “Io non credo all’inferno…”, o “Io non credo al Paradiso”. Ma queste parole non distruggono l’inferno ed il Paradiso e servono soltanto a far perdere il timore dell’inferno e la speranza del cielo a coloro che le pronunciano cinicamente.

I fratelli perseguitati d’Italia hanno conseguito abbondanti benedizioni, perché hanno saputo credere che tutte le cose cooperano al bene di coloro che amano Iddio.

Se noi guardiamo alla prova, al dolore, alla persecuzione, come se questi fossero nemici spietati della nostra vita, noi non possiamo conquistare il bene che è connesso a queste cose; ma se noi sapremo affrontare queste circostanze, come necessità benefiche, preparate o permesse da Dio, noi raccoglieremo certamente i pacifici frutti di giustizia generati dal dolore.

La fede dei cristiani non è stata una fede vacillante, perché la persuasione di andare incontro alle benedizioni ha reso ogni prova rosea ed ogni cimento leggero.

Non sempre durante il periodo della persecuzione abbiamo potuto afferrare il significato delle prove; molte volte non ci è stato possibile scorgere il bene contenuto nei dolori sofferti, ma non per questo, fede e persuasione sono crollate, perché sapevamo che il bene promesso da Dio può apparire molto tempo dopo o può rimanere nascosto agli occhi nostri. Forse noi non riusciamo a vedere il risultato benefico delle circostanze dolorose della nostra vita cristiana ed il Signore ripete a noi come a Pietro: “Tu non sai ora quello che Io faccio, ma lo saprai in seguito”.

Non riusciamo a vedere, ripeto, il risultato voluto da Dio, ma non per questo non si manifesta, e noi, quando un giorno appariremo nel cospetto di Dio, potremo conoscere il perché ed il significato di ogni cosa ed allora, di fronte ai secoli, innalzeremo il nostro salmo di lode, ripetendo lassù che veramente tutte le cose cooperarono al nostro bene, in armonia con i piani divini.

Ho detto che non sempre, durante la persecuzione, abbiamo potuto scorgere subito o chiaramente la benedizione conseguente alle prove ma è necessario aggiungere che molte e molte volte il piano prezioso e benefico del Signore è apparso così chiaramente e così sollecitamente da infondere nei nostri cuori il più vivo degli incoraggiamenti.

Abbiamo visto che molte prove non avevano altro scopo che quello di farci portare la testimonianza e la predicazione dell’Evangelo in luoghi o a persone che non potevano essere raggiunte diversamente. Molti e molti luoghi di confino, ove furono esiliati i fedeli, furono raggiunti dalla predicazione della verità ed oggi ci sono diverse comunità nate per quelle testimonianze che parlano del piano benefico di Dio.

Autorità, magistrati, agenti di pubblica sicurezza furono evangelizzati esclusivamente perché gli arresti, la prigionia, i processi ci misero in condizione di parlare liberamente e francamente del Salvatore.

E la Parola, nelle prigioni, non fu portata unicamente per la via della persecuzione?

In Italia non è permesso evangelizzare i carcerati perché soltanto i sacerdoti cattolici hanno accesso nelle celle delle prigioni, ma Iddio ha aperto quelle porte di ferro davanti a noi. E’ vero che esse poi si richiudevano alle nostre spalle, ma questo era soltanto per darci una più ampia opportunità di parlare di Cristo agli infelici peccatori che si trovavano reclusi in quei luoghi.

E nelle prigioni, luoghi di tormento e di peccato, la Parola di Dio ha avuto la sua via: peccatori sono stati salvati e Iddio ha anche battezzato nello Spirito Santo lì, dove nessuno può giungere.

Ricordo la testimonianza simpatica e significativa di un caro fratello della nostra comunità Questo fratello fu arrestato molteplici volte e trascorse gran parte del periodo della persecuzione fra la prigione e l’esilio. Sempre pieno di fervore e di zelo, amava chiedere a Dio: “Signore se in questa comunità ci devono essere dei martiri, concedimi l’onore di essere il primo”. Iddio non lo esaudì in questa richiesta, ma oggi egli è ugualmente con il Signore. I piani eterni non si conciliano sempre con i nostri desideri e le nostre richieste.

Questo fratello, durante una delle sue diverse detenzioni, fu posto nella cella di un criminale in attesa di processo; era costui un uomo collerico e violento accusato di rissa a mano armata.

Il caro fratello S. non indugiò a parlare del Salvatore al povero carcerato, ma questi respinse duramente la testimonianza. Provò altre volte, ma il risultato fu identico anzi sembrava che la Parola di Dio provocasse l’ira e la collera del temibile peccatore.

Il povero fratello divenne ben presto l’oggetto degli insulti e della collera furente del suo compagno di cella, ma egli non venne mai meno nel suo contegno d’amore, di dolcezza e di mansuetudine.

Un giorno che S. pregava inginocchiato presso la sua branda, il criminale, fuori di sé, si lanciò sopra di lui, brandendo uno sgabello di legno. Era deciso di fracassarglielo sul capo per farla finita con quell’uomo che rappresentava un’accusa alla sua vita di peccato. Egli stava per compiere il gesto criminale quando una mano onnipotente, quella di Dio, gli fermò energicamente il braccio: lo sgabello cadde a terra.

La lotta continuò ancora alcuni giorni, ma sempre più lieve: il povero peccatore cominciava a sentire la voce delle opere del caro servitore di Dio…

Un giorno venne la capitolazione; il criminale si avvicinò al fratello con dolcezza e gli confessò: “Riconosco che tu sei veramente un figliuolo di Dio! Riconosco che quello che tu pratichi e predichi è la verità. Vorrei accettarla, ma non posso!

“Perchè non puoi?” chiese prontamente il fratello.

Perché io non potrei sostenere gli scherni e le persecuzioni che tu sostieni” rispose il poveretto, e poi proseguì: “Io vedo che tu sei l’oggetto degli insulti di tutti e particolarmente dei carcerieri; quando essi entrano nella cella e ti trovano inginocchiato, ti coprono di parole malvagie. Io non potrei sopportare tutte quelle offese; eppure credo che Gesù è il mio Salvatore e vorrei accettarLo; si, vorrei accettarLo con tutto il cuore, ma non posso, non posso…”

Il povero peccatore pentito stava ripetendo con tono accorato: “Non posso, non posso…”, quando la potenza di Dio cadde sopra di lui in una gloriosa e dolcissima visitazione. Egli cadde sulle sue ginocchia e cominciò a gridare con tutta la forza dei suoi robusti polmoni: “Signore, abbi pietà di me; abbi pietà di me; abbi pietà di me: salvami!”

A quei gridi forti e prolungati corsero le guardie, gli inservienti, i carcerieri ed entrarono nella cella.

Compresero subito quello che era avvenuto e presero ad insultare il peccatore penitente, ma egli ormai non si curava più di loro e delle loro offese; aveva trovato il Signore.

In seguito Dio manifestò meravigliosamente il Suo aiuto verso di lui e in poco tempo riacquistò la libertà. Pieno di gioia nella salvezza trovata, fece ritorno al suo paese ed incominciò subito a rendere testimonianza del Redentore.

Tutti rimasero meravigliati del suo miracoloso mutamento e particolarmente i Suoi familiari furono colpiti dall’evidenza dell’opera di Dio e lo Spirito Santo trovò una strada aperta per operare. Oggi, in quel paese, esiste una piccola comunità per la sofferenza di un figliuolo di Dio e per la sua fedeltà.

Sì, tutte le cose cooperano al bene.

Quando medito il verso di Paolo ai Romani e l’affermazione categorica che è contenuta in essa, non posso fare a meno di associarlo, nel pensiero, al periodo della persecuzione. Iddio è veramente meraviglioso e sa concepire dei piani che ci colmano di sorpresa.

Ricordo un periodo particolarmente duro nella lotta della persecuzione e ricordo come, attraverso quella prova che sembrava dannosa per la chiesa, il Signore portò in luce bene e prosperità per ieri e per oggi. Le autorità presero la decisione di privare il popolo di Dio dei suoi conduttori; esse erano riuscite ad individuare coloro che, nel mezzo dei fedeli, espletavano un ministerio ed esercitavano una funzione direttiva e perciò determinarono di arrestarli, rimpatriarli, esiliarli, allo scopo di generare lo smarrimento e quindi la paralisi dell’opera.

La prova fu veramente dolorosa, perché vedemmo, uno dopo l’altro, eliminati tutti coloro che amministravano la Parola e che guidavano il popolo, ma da questa prova scaturì, in maniera gloriosa, la benedizione divina, perché mentre i ministri già all’opera venivano eliminati, altri sorgevano per prendere prontamente il loro posto. Gli atti di consacrazione si compivano uno dopo l’altro e Iddio suggellava questa disposizione colmando i cuori di potenza e di sufficienza per il ministerio

Fu attraverso questa circostanza che anche io, circa venti anni fa, benché giovane di età e ancora giovane nella fede, feci il mio atto di consacrazione al servizio di Dio. Mi sentii chiamato a prendere il posto di altri che erano stati arrestati ed allontanati e Iddio mi approvò per aiutarmi in questo arduo compito.

In seguito anch’io fui eliminato temporaneamente dal servizio ed altri presero il mio posto e così Iddio, mediante la persecuzione diretta particolarmente agli operai del suo campo, seppe chiamare, suscitare e sospingere un notevole numero di servitori nel suo servizio.

Voglio anzi raccontare come fu chiamato e preparato per l’opera uno di questi operai nati dal fuoco della lotta.

Questo fratello fu evangelizzato nel periodo della persecuzione . Egli aveva cercato ansiosamente la verità per molto tempo e perciò accettò la testimonianza con entusiasmo sincero.

Nessuno gli parlò di riunioni, ma egli stesso fece richiesta di poter incontrare i fedeli, di poter lodare il Signore.

Ma il fratello che lo aveva evangelizzato era perplesso e titubante ed alfine sinceramente gli dichiarò: “Noi siamo perseguitati; le nostre riunioni quindi sono pericolose, perché possiamo essere sempre arrestati ed imprigionati…”

Questo fratello non sapeva se le sue parole sarebbero state accolte con piacere; ma con piacevole meraviglia si sentì rispondere entusiasticamente: “Perseguitati, arrestati? Ma questa per me è una prova ulteriore che siete nella verità: la chiesa cristiana è stata sempre perseguitata ed io non ho timore di essere perseguitato, assieme ai cristiani, per la gloria di Dio”.

Volle venire al culto; fummo sorpresi ed arrestati ed egli fu arrestato insieme a noi. Dopo diverse settimane di carcere fu rimpatriato al suo paese nativo. Si trovò sin dai suoi primi passi del sentiero cristiano solo, lontano dalla fratellanza, stretto dal bisogno e in mezzo alla lotta dell’incomprensione e della persecuzione, ma non si scoraggiò. Le esperienze che aveva fatto avevano sufficientemente e profondamente confermato il suo cuore nella via della verità e quindi lì, nella solitudine e nella prova incominciò a pregare fervidamente per essere rivestito di potenza divina. L’Iddio fedele non tardò ad esaudire quella preghiera sincera ed il giovane fratello fu battezzato nello Spirito Santo ed appartato per il ministerio dell’Evangelo. Con ogni franchezza, in mezzo ai disagi, alla miseria e alle prove, egli incominciò il suo lavoro evangelistico ed ancora oggi, che sono trascorsi ormai diciotto anni, egli lo sta continuando con vera capacità spirituale.

Iddio quindi seppe moltiplicare gli operai, riuscì a far sorgere le comunità, condusse la testimonianza nelle prigioni e davanti alle autorità mediante le prove e le persecuzioni. Tutto questo ci conferma che « tutte le cose cooperano al bene ».

Non importa, ripeto, se questo bene appare o rimane nascosto; esso c’è ed in questa fiducia la nostra vita si deve arrendere, nella calma o nella persecuzione, nelle braccia di Dio. I fratelli perseguitati d’Italia hanno saputo comprendere questa verità preziosa nei giorni della lotta e Iddio li ha potuti usare per adempiere i suoi piani. Quando questa verità è norma nella nostra vita, forza nel nostro cuore, diveniamo sempre gli strumenti docili dei piani divini.

Si, tutte le cose cooperano al bene di coloro che amano Iddio ed i nostri persecutori stessi hanno dovuto vedere e riconoscere che la loro potenza e i loro provvedimenti non hanno danneggiato, anzi hanno aiutato la chiesa del Signore nel suo sviluppo e nella sua prosperità.

Sale di riunioni

Da questo punto del mio modestissimo lavoro desidero presentare alcuni bozzetti che illustrano, di riflesso, la vita emozionante vissuta dai fedeli nel periodo della persecuzione.

Questi bozzetti non hanno nulla di drammatico e non sono presentati in una forma linguistica che ne faccia materiale di lettura amena. Essi sono semplicemente la testimonianza di alcune scene di vita vissuta e si prefiggono lo scopo di fornire un’idea precisa della cornice che inquadrava l’attività della chiesa nel periodo al quale si riferisce questo volumetto.

Per seguire, direi, un ordine logico, presento come primo, fra questi bozzetti, quello sulle nostre “Sale di riunioni”.

I cristiani che si sono sempre raccolti in sale ampie e confortevoli, che hanno avuto sempre ventilatori o impianti di riscaldamento, forse non hanno mai immaginato di quali sale si sono dovuti servire i fratelli d’Italia nel periodo della lotta e della vita clandestina.

E’ necessario che dica, prima di ogni altra cosa, che queste « sale » (scusatemi se continuo ad usare impropriamente questo nome) dovevano, il più possibile, nasconderci agli occhi indiscreti dei nostri nemici e al controllo delle autorità.

Non potevamo fare delle scelte troppo accurate e le comodità dovevano essere dimenticate, perché il primo requisito era la segretezza.

Quindi le prime sale furono costituite dalle abitazioni dei fedeli che dimoravano nei quartieri più isolati della città. Generalmente erano delle piccole camerette povere e senza aria, ove però si accalcavano ugualmente decine e decine di fedeli.

Si respirava a fatica e non c’era la possibilità di muoversi. Pigiati uno accanto all’altro, bisognava soltanto aver cura di occupare meno spazio possibile, eppure in queste piccole salette, che trasudavano dai muri l’umido del nostro alito, era sempre gloriosamente presente la benedizione di Dio.

Uscivamo da quei luoghi con le nostre giacche attraversate dal sudore, con i calzoni attaccati alle gambe, con le fronti madide di sudore ed i volti accaldati, ma con la gioia di esserci riuniti e di aver insieme incontrato il Signore.

Fra tutte queste camerette ne ricordo particolarmente una. Era una povera stanza di una casupola in periferia; era larga forse tre metri e non era più lunga di tre metri e mezzo. Il soffitto scendeva perpendicolarmente e la parte più bassa poteva essere quasi sfiorata con il capo. Il pavimento era di cemento.

In questa stanzetta furono tenute centinaia di riunioni, interrotte di tanto in tanto da un arresto in massa operato dalla pubblica sicurezza. Molti hanno trovato il Signore fra quelle mura e moltissimi sono stati battezzati con lo Spirito Santo.

Ricordo una delle operazioni di polizia effettuata mentre ci trovavamo raccolti nella stanzetta descritta.

Era una domenica ed eravamo raccolti per una riunione di preghiera. I fedeli erano giunti sempre più numerosi ed ogni angolo, ogni spazio era stato occupato. I muri colavano letteralmente acqua; l’aria era pesante, ma tutto questo scompariva sotto la nuvola della gloria di Dio che era presente in quel luogo in un modo meraviglioso…

A questo punto cedo la descrizione ad un fratello che si trovava all’esterno della casupola. Egli non era potuto entrarci e si era posto a sedere sopra una altura distante un centinaio di metri:

“Giunse la polizia”, raccontò questo fratello, “e circondò la casa da lontano; sembrava che dovesse compiere un’operazione pericolosa: gli agenti si stesero a terra in attesa di un segnale. Improvvisamente il comandante diede il segnale e tutti, come un uomo solo, si rizzarono in piedi e presero a correre verso la casa stringendo il cerchio intorno ad essa. Quando si accorsero che non c’era pericolo o resistenza, aprirono violentemente la porta ed entrarono… ma fatto un passo dentro, ne fecero prontamente due indietro: l’aria era assolutamente irrespirabile.

Allora, con voce concitata ed irosa, ci ordinarono di alzarci e di venir fuori. Fummo costretti ad ubbidire e ad uscire. dieci, venti, trenta… Il numero aumentava sempre più sotto gli occhi meravigliati della polizia che non riusciva a comprendere come da quella casupola potessero uscire tanti individui. Quaranta, cinquanta, sessanta, settanta…

-Ma come avete fatto- gridarono –ad entrare in quel luogo? Non avevate paura di asfissiarvi?-

In oltre settanta uscimmo da quella specie di antro, fornito di una piccolissima finestra che, d’altronde, eravamo costretti a tener chiusa per far spandere il meno possibile le nostre voci. Oltre settanta, cioè sette od otto persone per ogni metro quadrato di spazio”.

O cara stanzetta, quante benedizioni abbiamo raccolto dentro di te! Quante volte abbiamo ripensato alle riunioni da te ospitate e abbiamo ripensato ad esse con nostalgia!

Molte delle riunioni ospitate fra le pareti ampie e confortevoli delle sale di oggi sono prive della benedizione che arricchiva le riunioni di culto tenute in quella saletta che ci dava umidità, caldo asfissiante, mancanza d’aria.

Purtroppo, anzi, queste piccole sale di riunioni non furono disponibili sempre, perché, con l’aumentare delle misure di controllo della pubblica sicurezza e col succedersi degli arresti, le case disponibili divennero sempre in minor numero ed un giorno fummo costretti a cercare altrove, fuori delle case, le nostre sale di riunione.

Diversi fratelli, forniti di bicicletta, si misero alla ricerca nelle zone estremamente periferiche della città, di campagne deserte, cave, grotte, boschi che comunque avessero potuto accoglierci.

Furono individuati diversi posti apparentemente adatti per le nostre necessità. Cominciammo così il nostro esodo notturno e domenicale verso queste nuove sale di riunione.

Una campagna generalmente non riesce a nascondere come una casa e quindi per raggiungere nel miglior modo possibile il nostro scopo erano stati scelti campi o località campestri lontanissimi dall’ abitato, dalle strade e quindi dall’indiscrezione di passanti occasionali.

Questo criterio di scelta ci costrinse però a compiere ogni sera chilometri e chilometri di strada, talvolta nel buio più profondo, e a superare terreni pericolosi ed accidentati.

Ricordo a questo proposito la dichiarazione di un poliziotto, in una sera che ci arrestarono: “Ogni volta che vengo a cercarvi per prendervi, devo lacerare un paio di calzoni! Come fate a trovare questi luoghi inaccessibili?”

Non posso nascondere che il disagio e la fatica erano notevoli. Ogni sera bisognava affrontare gli stessi pericoli e la medesima fatica e dopo le riunioni, se si riusciva a rientrare nelle nostre abitazioni, si doveva constatare che avevamo sorpassata notevolmente la mezzanotte.

Eppure in quelle campagne umide, seduti a terra e sferzati talvolta dal vento e dal freddo, noi godevamo la medesima gioia dei cristiani delle catacombe.

Qualche volta non era un campo ma una cava che ci accoglieva fra le sue spettrali braccia di pietra Erano generalmente cave abbandonate che presentavano lo spettacolo desolante di un lavoro lasciato a metà. Lì, su quei massi sparpagliati in ordine disordinato, fra quella polvere che ci affondava, noi ci sentivamo nella nostra sala di riunione davanti al Signore.

Ricordo, fra tante, le cave di Via Ardeatina, con le sue grotte sotterranee che usavamo per le riunioni di preghiera. Bisognava percorrere, per arrivarci, una strada che sembrava non dovesse mai finire, ma quando eravamo lì, quale gioia, quali benedizioni ci colmavano l’anima ed il cuore.

Le ricordo in modo particolare fra tutte, perché sono tornato diverse volte a visitarle. Esse sono divenute, ironia della sorte, monumento nazionale, perché proprio nel cuore di queste cave, furono trucidati dalle truppe tedesche 335 Italiani.

Questi poveri infelici sono ora seppelliti nel medesimo luogo ove sono stati uccisi; nel medesimo luogo ove noi abbiamo lodato il Signore.

Fra gli uccisi c’era anche un credente della nostra comunità, preso assieme agli altri ostaggi e trucidato con loro per rappresaglia. Io mi sono chiesto tante volte se quel caro fratello avrà riconosciuto, in quel luogo ove ha perduto la vita, il medesimo luogo ove ha glorificato il Signore.

Oltre le cave, come già ho detto, ci servimmo di altre sale di riunioni, e fra queste ci furono anche delle grotte ospitali. Nel seno della terra, illuminati da alcune torce e da qualche lampadina tascabile, fummo imitatori perfetti dei cristiani delle catacombe. Ci sentivamo veramente in comunione con essi, e quei luoghi, nei quali non filtrava nessuna luce esterna e dove non giungeva aria di ricambio, diventavano i più suggestivi luoghi di riunione che si potessero immaginare.

Anche le grotte furono disponibili soltanto per un periodo di tempo e fummo costretti a cercare altre “sale”, altri luoghi di riunioni.

Località inaccessibili, piccoli burroni nascosti, boschi abbandonati, spiagge fluviali irraggiungibili: tutto fu sperimentato e tutto fu usato.

I pericoli e i sacrifici venivano posti fuori delle nostre considerazioni, perché l’unico scopo era quello di essere riuniti insieme per lodare il Signore ed offrire il nostro culto spirituale al Suo nome glorioso.

Non voglio far pensare che questo continuo mutamento di luoghi di riunione ci tenne lontani dalla polizia. No! Anche in questi vari luoghi eravamo raggiunti sistematicamente dalle autorità esecutive ed arrestati e imprigionati. In quest’ultimo caso le celle carcerarie diventavano le nostre sale di riunioni ed anche in quei luoghi di dolore e di sofferenza il nostro canto di lode si elevava affettuoso e sincero nel cospetto di Dio.

Le autorità evangelizzate

Nel periodo della persecuzione la testimonianza dell’Evangelo si allargò in modo meraviglioso e giunse miracolosamente davanti alle autorità e davanti ai magistrati.

Quasi ogni grado della magistratura italiana fu evangelizzato dai cristiani che si trovavano nel cimento, perché i nostri processi furono portati in pretura, in tribunale, in corte di cassazione, davanti al tribunale per la difesa dello Stato….

I nostri processi erano sempre interessanti ed emozionanti; generalmente impegnavano un tempo notevolmente lungo, perché aprivano la porta alla testimonianza dell’Evangelo. Entro questo tempo i magistrati ricevevano la testimonianza chiara, dettagliata della salvezza in Cristo.

Non tutti questi giudici hanno accolto le nostre parole benevolmente e non tutti sono stati giusti ed imparziali nei nostri confronti, ma più di uno o di pochi hanno ascoltato e ricevuto le nostre parole con piacere manifesto e ci hanno mostrato il senso della loro giustizia.

Io ricordo gli uni e gli altri e riconosco che Iddio ha voluto far pervenire la sua parola a tutti e non soltanto per parlare di salvezza ma anche di giudizio e di giustizia. Sembra quasi che Iddio abbia voluto applicare le parole pronunciate dal salmista: “Giudici della terra, siate savi”.

La testimonianza dei cristiani, oltre che parlare di Cristo, parlò a tutti i magistrati del tribunale di Dio, del Giudice supremo, della giustizia vera. Cioè ricordò a tutti gli uomini, chiamati ad amministrare la giustizia, che sopra i loro giudizi e sopra la loro autorità c’era e c’è l’indistruttibile autorità dl Dio, di fronte al Quale tutti gli uomini, e quindi anche i magistrati, devono comparire per essere giudicati.

Fra tutti questi magistrati, due sono rimasti nitidamente presenti nei miei ricordi. Li vedo fra tanti in un modo più distinto, direi più vicino. Il primo, una simpatica figura giovanile, che riusciva a serbare anche in quel periodo d’insidia e di corruzione un sano sentimento di giustizia. Fu chiamato diverse volte a giudicare le nostre cause e non ebbe timore di manifestare tutta la simpatia che nutriva per l’opera di Dio.

In una causa molto complessa, che coinvolgeva nell’imputazione cinquantadue cristiani, ci aiutò a conseguire la vittoria nell’assoluzione, illuminandoci giuridicamente per farci riconoscere e superare le insidie della pubblica accusa.

Forse la Parola di Dio aveva raggiunto il suo cuore? Forse la testimonianza dell’Evangelo aveva fatta breccia nella sua coscienza? Non so! Dopo quel periodo di persecuzione lo abbiamo perso di vista e solo l’eternità ci rileverà ogni cosa intorno a lui.

Io spero, però, che quel giudice benevolo possa trovare benevolenza di fronte al Giudice Supremo.

Il secondo fu giudice in uno solo dei nostri processi. Io non posso dire nulla dei suoi sentimenti o delle sue capacità, ma posso dire che apparve agli occhi nostri come l’uomo venduto alle opportunità, cioè un Pilato in miniatura.

Egli sapeva che molte persone altolocate desideravano la nostra condanna e quindi preparò la sentenza e, di conseguenza, la condanna prima ancora dell’udienza.

Questo processo fu particolarmente emozionante. Una grande sala del Comune fu messa a disposizione per ospitare questa causa che cercarono di convertire in uno spettacolo.

Erano presenti, per assistere al programma fuori serie, le persone più influenti del luogo.

Il Podestà di quel Comune, cioè il capo del Comune, si costituì pubblica accusa e comparve all’udienza in orbace, cioè in divisa fascista con una larga fascia tricolore attraverso il petto.

Tutto era stato predisposto per darci in pasto alla curiosità e forse allo scherno pubblico. Ma Iddio si glorificò in un modo meraviglioso…

Le domande del magistrato e le continue insinuazioni dell’accusa furono soltanto delle occasioni favorevoli per presentare ed illustrare ampiamente e francamente il messaggio della salvezza.

Il pubblico era rapito dalle parole che il Signore poneva sulle nostre labbra e tutti manifestavano in un modo evidente la loro approvazione: se avessero potuto, io credo che ci avrebbero calorosamente applauditi.

La testimonianza fu resa fino in fondo ed il nome di Dio fu onorato; ma il nostro giudice volle compiere quello che aveva deciso: fummo tutti condannati. Iddio, però, operò meravigliosamente e quella condanna fu cancellata dalla Sua mano. Io spero che quel piccolo giudice occhialuto, servo del regime e dei suoi pregiudizi confessionali, non debba comparire davanti a Colui che può chiedergli ragione della sua ingiustizia.

Non soltanto i magistrati dei vari gradi furono evangelizzati in quei giorni, ma anche alti funzionari di Ministeri, questori, ufficiali della polizia e dei carabinieri, ufficiali generali della milizia fascista, prefetti della provincia. Le opportunità si moltiplicavano e quelle medesime porte, che sembravano irrimediabilmente chiuse davanti a noi, si aprivano per offrirci la possibilità di portare la testimonianza dell’Evangelo dove non saremmo potuti giungere per vie normali.

Questo nuvolo di autorità gallonate e civili furono i nostri giudici ed i nostri inquisitori, ma molte volte le parti si invertivano ed essi assumevano la posizione di imputati; la Parola di Dio, in quel caso, diventava il loro severo atto di accusa. Essi venivano sempre presi da meraviglia nel vedere la franchezza ed il coraggio dei cristiani; erano abituati a vedere le persone tremare davanti a loro ed invece ecco comparirgli davanti degli individui di basse condizioni sociali e privi di qualsiasi cultura, che non soltanto non tremano ma non perdono la favella ed espongono con franchezza la propria fede, la propria speranza e la dottrina che professano.

Nessuno di noi può dire quale risultato abbia seguito l’evangelizzazione delle autorità, anche a questo proposito si può ripetere: l’eternità rivelerà ogni cosa!

Però si può affermare che attraverso la persecuzione si sono adempiuti i piani di Dio e le parole di Gesù relative all’evangelizzazione delle autorità. La testimonianza è stata recata davanti ai grandi della terra e così tutti, nobili e plebei, carcerati e giudici, cittadini e autorità, hanno udito il messaggio della grazia.

Una vera esposizione di autorità era rappresentata dalla famosa “Commissione per l’assegnazione dell’ammonizione e del confino di polizia”. Questa missione era formata dal Prefetto, da un generale della milizia, da un colonnello dei carabinieri, dal questore e da vari segretari.

Molti cristiani comparvero davanti a questa terribile e temuta commissione per essere condannati all’esilio e alla sorveglianza vigilata. Tutti fummo condannati, ma io credo che i veri condannati furono i nostri giudici che, ripetutamente e per le labbra di una moltitudine di cristiani, udirono la testimonianza calda e sincera della salvezza. Ricordo che quando fui chiamato a comparire (ero allora poco più che giovanetto) si verificò un fatto curioso: le cose che incominciarono ad addebitarmi non si riferivano alla mia persona. Evidentemente il segretario aveva confuso le pratiche ed aveva preparato un atto di accusa privo di qualsiasi fondamento reale.

Feci notare che l’accusato non potevo essere io, perché le cose contenute nel verbale non corrispondevano. Rimasero tutti confusi…ma pronunciarono ugualmente la condanna. Ma io, quel giorno, mi sentivo pieno di gioia perché avevo potuto aggiungere la mia voce a quella degli altri e confermare con la mia personale testimonianza la testimonianza che avevano già reso gli altri fratelli.

Si, le autorità furono evangelizzate; l’Evangelo che volevano soffocare ha fatto udire la sua voce poderosa e quando, nel giorno di Cristo, gli uomini saranno chiamati a rendere conto delle loro opere e dei loro sentimenti, anche coloro che furono nei più alti gradi della gerarchia dovranno confessare di aver sentito parlare di Gesù da un popolo umile e povero che essi hanno maltrattato e perseguitato.

Il mio primo arresto

La persecuzione cominciava ad infierire contro la chiesa e già molti avevano fatta l’esperienza dell’arresto, degli insulti, delle minacce. In ripetute circostanze le riunioni erano state interrotte dall’intervento degli agenti di polizia ed i fedeli raccolti nel luogo, generalmente una casa di abitazione, tradotti al più vicino commissariato.

Io non avevo ancora avuto questa esperienza e mi giudicavo defraudato di un privilegio. Ero stato sempre assiduo alle riunioni e sempre avevo continuato la mia attività pubblica di cristiano, ma i piani di Dio mi avevano tenuto fuori da simile circostanza. Quando l’arresto era stato effettuato in una casa, io mi ero trovato in un’altra casa, e così pur avendo presenziato regolarmente alle riunioni di culto, ero stato risparmiato.

Ma finalmente, e questo finalmente sta ad indicare l’ansia di poter combattere in prima linea con tutti i credenti, venne la volta mia.

Ero in una piccola e poverissima casa di un fratello residente nell’estrema periferia della città; casa che si componeva di un solo vano adibito a tutti gli usi che generalmente vengono riconosciuti ad una casa.

Non eravamo in molti; probabilmente la grande distanza dal centro della città, unita alla scomodità di strade appena tracciate e sempre ricche di fango o di polvere, rendeva questo luogo, in quell’epoca che segnava solo il principio della persecuzione, il meno frequentato fra quanti erano disponibili.

Avevamo iniziato la riunione di culto da circa venti minuti ed eravamo impegnati a cantare, con voce così flebile che pareva sospiro, un inno spirituale, quando con l’impeto dell’uragano la porta fu aperta sotto la violenza di una spinta vigorosa e, prima ancora che ci rendessimo conto di quanto stava accadendo, tre o quattro individui, scalmanati e violenti, ci ingiunsero di sospendere il canto e di alzarci in piedi.

L’ingiunzione era completamente superflua, perché la violenza dell’azione aveva spento il canto sulle nostre labbra e in quanto all’alzarci in piedi lo avevamo fatto in ubbidienza all’istinto.

“Seguiteci!” ordinarono gli sgherri, e subito aggiunsero: “Siamo comandati dal Gruppo rionale”.

Non erano agenti di polizia, ma fascisti inviati sul posto da una delle tante spie delle quali in quell’epoca si serviva il regime dittatoriale che schiacciava l’Italia.

Tutti rimanemmo sereni, benché l’intervento dei fascisti poteva significare la consumazione di qualsiasi illegalità e di qualsiasi violenza. Le pagine della più recente storia italiana grondavano ancora sangue per le bravate delle schiere nere e non c’era nessuno di noi che ignorasse di quanto erano capaci, anche a solo scopo sadico o intimidatorio, i così detti “gruppi rionali” cioè quei distaccamenti e compartimenti che rappresentavano il partito nei diversi quartieri della città.

La nostra serenità e la nostra tranquillità produssero forse un’impressione favorevole su quegli uomini, perché, senza insistere oltre nel loro contegno di violenza, ci fecero uscire dalla casa e, sotto gli occhi incuriositi del vicinato, fra i quali forse non erano assenti quelli del compiacente delatore; ci fecero incolonnare uno dietro l’altro; quindi ci divisero ai due lati della fila e ci fecero mettere in cammino

Lungo la strada ci coprirono con i loro motteggi e i loro lazzi, ai quali noi rispondemmo, talvolta con dignitoso silenzio, e talvolta con opportune citazioni bibliche atte a chiarire il fine della nostra speranza e della nostra fede.

Giungemmo finalmente alla sede del “gruppo”. Sale, salette, corridoi; alcune arredate con lusso ed eleganza, altre abbandonate all’incuria e al disordine; forse le une per i gerarchi o per le cerimonie più o meno ufficiali, le altre semplicemente per gli iscritti o per le attività sociali; noi fummo lasciati in un cortile all’aperto sotto la vigilanza di uno sgherro. Dopo poco incominciarono ad accorrere i curiosi: frizzi acerbi, minacce violente, tutto si riversò sopra di noi e l’uno ci prometteva uno schiaffo e l’altro proponeva alla compagnia di somministrarci una di quelle abbondanti dosi di olio di ricino per le quali, assieme ai manganelli, si erano resi tristemente celebri.

Nessuno ci fece nulla, perché, sapemmo in seguito, erano in attesa della decisione del fiduciario, cioè del capo del gruppo. Nessuno ci fece nulla, perché, come ha detto Gesù, neanche un capello del nostro capo può cadere a terra senza l’approvazione di Dio e quindi senza che questo rientri nel piano di Dio.

Iddio voleva che il nostro esercizio fosse progressivo e per quella volta ci fece conoscere solo l’emozione dell’arresto, la prova degli insulti e degli scherni e l’esperienza delle minacce.

Il fiduciario, dopo averci fatto attendere all’aperto per alcune ore, prese una benevola decisione: “Chiamate gli agenti di polizia del più vicino commissariato”, egli disse, “e consegnate loro questi individui”.

Attendemmo ancora un poco di tempo, utile ai fascisti per continuare i loro scherni, e quindi giunse un agente di polizia. Si fece consegnare i nostri documenti, trascrisse diligentemente le nostre generalità e alla fine sentenziò: “Potete andare”.

Quando uscimmo da quel luogo, eravamo tutti gioiosi, più che per la liberazione avuta, per la grazia realizzata in Dio per rimanere sereni e tranquilli nella prova sostenuta per il Suo nome.

Trepidanti e pieni di gioia, raggiungemmo una casa ove sapevamo di trovare diversi fedeli e tutti ci unimmo per lodare Iddio in questa esperienza e soprattutto per l’aiuto e la grazia dei quali ci era stato prodigo.

Un culto all’aperto

Eravamo raccolti in un tardo pomeriggio di primavera. sulle rive dell’Aniene, il torbido affluente del Tevere che scorre nell’estrema periferia della città. Il luogo scelto per le riunioni di culto era dei più accoglienti: una vasta conca circondata da folti cespugli, che, mentre ci isolavano dalla zona, d’altronde deserta, che ci correva attorno, ci mantenevano anche in uno stato di raccoglimento e di poesia.

Non era la prima riunioni che tenevamo in quel luogo e non ci eravamo mai pentiti della scelta fatta, benché per accedere alla conca erbosa dovevamo percorrere un lungo tratto di strada e superare delle ardue zone accidentate. Quella sera, fra il sommesso salmeggiare dei cantici e quello meno sommesso dalle preghiere, giungemmo fino a quel punto della riunione che tutto tace per dar posto alla predicazione della Parola. Un giovane fratello lesse pacatamente il salmo 129 e poi lentamente, ma con calore, cominciò a porgere il suo sermone. Era ancora alle prime parole, quando i ciuffi verdi dei cespugli si piegarono violentemente e comparvero tutt’intorno uomini in borghese. Comparire e saltare come fiere tra noi fu quasi una sola azione. “Non vi muovete, non fuggite, state fermi”, presero a gridare concitatamente, “Siamo agenti di polizia; vi dichiariamo in arresto”.

Nessuno di noi pensava a fuggire, anzi, rimanemmo tutti fermi e tranquilli.

Rassicurati dalla nostra attitudine gli agenti, senza più gridare, ci circondarono. “Ora seguiteci”, ci dissero.

Il gruppo era molto folto e quindi c’incolonnarono per due e ci avviarono, sotto scorta vigilante, verso l’abitato.

Gli agenti non erano soddisfatti della spedizione; per giungere al luogo ove eravamo radunati avevano dovuto, oltre che affaticarsi, sacrificare le loro scarpe e i loro abiti al fango, agli sterpi e perciò lungo il cammino sfogavano tutto il loro malumore con frasi mordaci indirizzate alle nostre persone.

Finalmente giungemmo ad un’ampia radura dove stazionava il resto del drappello della polizia. C’era ad attendere un’auto da trasporto sufficiente per una trentina di persone. Da qui cominciò il trasporto al più vicino commissariato di polizia, furono prima fatte salire parte delle sorelle ed avviate velocemente allo stabile ove aveva sede il posto di polizia che distava oltre un chilometro dal luogo .

Queste, tutt’altro che spaventate, cantavano lungo il percorso: “Salvati siamo, non più timore, per questa strada si giunge al cielo…”

No, care signore, interrompevano gli agenti di scorta, per questa strada si giunge in prigione. Gli agenti ignoravano una verità preziosa, e cioè che la strada di Dio passa per la prigione, ma porta in cielo. Tre, quattro viaggi furono necessari per trasferire l’intero gruppo dalla radura al commissariato.

Lì fummo ammassati in un ampio salone, usato come refettorio per gli agenti, e lasciati in attesa i ordini.

Mentre c’intrattenevamo lietamente e serenamente in conversazione cristiana entrò un individuo dal viso rosso e dall’occhio penetrante; prese a fissarci attentamente uno dopo l’altro; ogni tanto si fermava per un particolare esame, davanti ad un fratello o ad una sorella; allora si piegava e allungava il collo in avanti per concentrare la sua attenzione dal basso in alto. Compiuto l’esame di tutti, ricominciò dal primo e così per diverse volte. Non abbiamo mai saputo la ragione di quella strana osservazione.

Io intanto cominciavo a sentire una fame acuta, in quell’epoca soffrivo strani disturbi di stomaco che venivano provocati appunto dalla fame e cominciai perciò a pensare a quel che avrei sofferto di lì a poco. Da molte ore non mangiavo e non c’era la probabilità che avrei mangiato molto presto.

Ma l’Iddio, che nutrì il profeta per i corvi, mandò anche a me un aiuto provvidenziale e insperato. Il corvo questa volta ebbe le spoglie di un agente che, rientrando tardi da un permesso giornaliero, venne nel refettorio a consumare la sua cena.

Incuriosito della presenza di tante persone prese a chiederci spiegazioni e a darci, di conseguenza, l’opportunità di rendergli testimonianza della verità. Io mi trovai fra i primi e fra i più attivi a rispondere alle sue parole. Il giovane fu vivamente toccato nell’animo e in un trasporto di simpatia mi offrì spontaneamente un pane con della carne in mezzo; era quanto bastava per placare i morsi della fame e trasferire il mio disturbo doloroso. i

Trascorsero diverse ore; incominciarono le solite procedure burocratiche: consegna dei documenti di identità, interrogatori, ecc.

Finalmente giunse la decisione del commissario: “le donne siano rilasciate, gli uomini invece siano rinchiusi nelle camere di sicurezza”.

Per nostra buona ventura le camere di sicurezza in uso in quel commissariato erano abbastanza ampie; misuravano forse quattro metri per ognuna delle pareti e quindi, quando fummo divisi in gruppi e posti 14 per 14 nelle due celle, non ci trovammo troppo ristretti.

Entrammo in quella cella verso le due di notte e cioè dopo molte ore dall’arresto, eravamo stanchi e quasi tutti non avevamo mangiato dalle prime ore della mattina, ma nessuno avvertiva stanchezza e fame e tutti ci trovammo d’accordo d’incominciare subito una riunione di culto: non temevamo arresti e non eravamo agitati da nessuna trepidazione; la polizia ci aveva offerto un locale ed una opportunità per tenere una riunione in completa libertà.

Ricordo chiaramente il testo del sermone: “Sii fedele fino alla morte ed Io ti darò la corona della vita” (Apocalisse 2.10).

Tutti fummo incoraggiati e consolati dalle preziose parole del Signore.

Terminata la riunione, poiché non si poteva pensare alla cena (in camera di sicurezza danno da mangiare soltanto una volta al giorno pochi grammi di pane con carne di cavallo insaccata), pensammo di metterci a dormire. A questo punto sorse il primo problema.

In nessuna camera di sicurezza esiste un letto e in quella, come in tutte le altre, c’era soltanto il classico “tavolaccio” e cioè un tavolo di legno della grandezza di metri 2×2, conficcato nel muro e sorretto all’estremità opposta da un cavalletto posto su un piano più basso, per dare una posizione inclinata alla tavola stessa. A circa 25 cm. più in alto era conficcata nel muro una seconda tavola larga forse 30 cm. che correva per tutta la lunghezza del “tavolaccio”; questa seconda tavola rappresentava il guanciale degli infelici malcapitati.

Il tavolaccio non era il letto più desiderabile, ma comunque rappresentava ugualmente un mezzo per tentare il conseguimento di un poco di riposo, ma come sistemare 14 persone su due metri di legno?

Decidemmo di attuare una specie di turno: alcuni si sarebbero accomodati sul tavolo, altri in terra; dopo qualche tempo avremmo sostituito i rispettivi giacigli.. E così facemmo e così giungemmo alle prime luci della mattina fortunatamente non lontane dall’ora in cui iniziammo l’incomodo nostro riposo.

Con la luce avremmo voluto incominciare la nostra giornata: lavarci, metterci in ordine. Chiamammo gli agenti, ma questi ci risposero che queste cose non sono d’uso nelle camere di sicurezza, perché coloro che sono detenuti in queste non devono uscire per nessuna ragione finche non si decide la loro sorte e cioè o libertà o carcere giudiziario. Per questo motivo, aggiunsero, esiste quel vaso di legno, entro la cella stessa; e, così dicendo, ci indicarono un lurido arnese che giaceva in un angolo della stanza, che ora alla luce del giorno ci appariva nel suo reale, orrido stato.

Pazienza! Ci rimane una sola cosa da fare, dicemmo gli uni agli altri, e cominciammo una nuova riunione di culto. Non ricordo in quale modo eravamo riusciti a rimanere in possesso di una copia di un piccolo Nuovo Testamento (ogni altra cosa ci era stata tolta, assieme alle correggie delle scarpe e dei pantaloni) e quindi, se dovemmo servirci solo di quegli inni che sapevamo tutti a memoria, potemmo servirci, nel sermone, della scrittura.

La giornata trascorse in santa letizia; le ore trascorsero nelle conversazioni cristiane e nelle preghiere e nel pomeriggio tenemmo una terza riunione di culto.

Non ci diedero molto da mangiare e non vollero neanche farci passare quanto le sorelle, sin dalle prime ore della mattina, portarono al commissariato (In quei giorni non esisteva un organizzazione, ma tutto era organizzato in modo perfetto dallo Spirito di Dio), ma il Padre celeste ci nutrì abbondantemente delle parole della Sua bocca.

Durante la giornata venimmo interrotti frequentemente dalle visite di controllo degli agenti: questi aprivano la porta, ci contavano, ci dicevano qualche frase di scherno, e poi tornavano a chiudere la porta davanti a noi.

Giunse la sera e già ci disponevamo ad incominciare un nuovo turno sul “tavolaccio”, quando la porta si aprì violentemente ed un nome fu pronunziato imperiosamente. Il fratello chiamato seguì l’agente; attendemmo diverso tempo, ma non tornò. E’ troppo tardi, dicemmo, per un trasferimento al carcere giudiziario, forse per questa volta ci lasciano in libertà.

La porta si aprì di nuovo: un secondo nome: “Perchè ci chiamano?” chiedemmo all’agente “Per essere posti in libertà”, fu la risposta.

Uno dopo l’altro i fratelli cominciarono ad uscire. Venne anche la volta mia (fui il penultimo) e fui portato davanti ad un funzionario che mi coprì di minacce e al quale naturalmente diedi la sola e semplice risposta: “Io devo fare la volontà di Dio” e poi fui condotto al corpo di guardia dove mi furono restituite tutte le cose che mi erano state tolte: correggie, fazzoletti, portafoglio, denaro, ecc.

Era notte quando uscii sulla strada, ma trovai lì ad attendermi, diversi altri fratelli e sorelle che erano venuti ad attenderci.

Quest’esperienza era passata; glorificammo insieme il Signore e uniti ci disponemmo per attendere quello che doveva ancora venire.

Carcere Giudiziario

Venne un periodo che sembrava di tregua per la chiesa: un’ amnistia ampia e generosa interruppe la mia condanna a due anni di sorveglianza speciale; i confinati tornarono alle loro case; altri, come me, furono condonati e tutti assieme trascorremmo diversi giorni di gioia purissima nella comunione fraterna.

Molte famiglie riabbracciarono i loro cari, esiliati lontano; altre spensero la trepidazione che li teneva in ansia per il loro congiunti sottoposti a libertà vigilata, condanna che mantiene continuamente, coloro che sono sottoposti ad essa con un piede nella prigione e con uno fuori, e tutta gioimmo per le catene infrante e per la consolazione di rivedere molti fedeli lungamente separati da noi ha causa del loro confinamento.

Sembrava che fosse giunta, se non la fine, una lunga tregua alla persecuzione, ma pochi giorni furono sufficienti a convincerci del contrario.

Mi trovavo in una di queste serate gioiose in casa della famiglia L… per presiedere una riunione di culto. Il padre e la figlia maggiore erano tornati recentemente dal confino; egli si trovava in quella sera seriamente ammalato, mentre sua figlia si era recata a presenziare una riunione di culto che si teneva in un quartiere basso della città.

In casa c’era soltanto la mamma che accolse estesamente tutti i fedeli che affluiranno nella sua abitazione.

Malgrado la malattia del marito era piena di gioia. Non solo aveva abbracciati i solitari tornati dal confino, ma per il giorno successivo attendeva anche il ritorno delle sue due figliole minori che terminavano precisamente quel giorno la loro pena carceraria di tre mesi ciascuna.

Queste due giovani sorelle avevano avuto questa condanna perché giudicate colpevoli di trasgressione alla ” sorveglianza speciale ” ed avevano trascorso gran parte della loro detenzione in celle in comune, unite a donne criminali della peggiore specie. Esse avevano incontrato questa prova per presenziare una riunione di culto.

Ma ormai la condanna era giunta al suo termine, i tre mesi erano trascorsi; la famiglia, dopo varie ed avventurose vicissitudini, tornava a comporsi e perciò la vecchia mamma era traboccante di serena gioia cristiana.

I diversi fedeli si sistemarono meglio che potevano nella non molto grande cucina, che rappresentava il varo della casa più distante dalla porta di ingresso (generalmente si usavano queste precauzioni per non far udire rumori all’esterno) ed io aprii il servizio di culto: innalzammo sommessamente alcuni inni, poi, mostrati in preghiera, elevammo le nostre lodi e le nostre richieste; ancora un inno e quindi alcune testimonianze. Dopo queste iniziai il sermone: lessi il salmo 144 e presi come testo i primi due versi. Ma ero solo all’introduzione, quando un trillo prolungato, oltre ogni convenienza, del campanello mi fece comprendere che qualche cosa stava avvenendo; comunque, non mi interruppi, ma potetti pronunciare solo poche altre parole, perché un clamore di voci concitate e di passi frettolosi arrestò il sermone sulle mie labbra.

Dalla porta una voce sonora e stizzosa esclamò: ” E’ Bracco che parla.”

In pochi minuti la casa fu letteralmente invasa da un intero drappello di agenti di polizia. Io li conoscevo quasi tutti perché venivano dal commissariato del quartiere nel quale io abitavo.

“Seguiteci!” fu il comando imperioso. Era inutile indugiare; ci mettemmo in cammino e in pochi minuti ci trovammo tutti nei locali del commissariato.

Incominciarono le pratiche alle quali ormai eravamo tanto abituati e comprendemmo subito che le intenzioni del commissario erano delle più severe. Infatti io, unitamente a quattro fratelli (uno poi fu rilasciato la mattina seguente) e la vecchia mamma unitamente ad una sorella, fummo trattenuti e portati al piano terreno per essere internati nelle camere di sicurezza.

Mentre attendevamo pazientemente il disbrigo delle pratiche relative alla nostra carcerazione, scese a vederci un arcigno funzionario col quale molte volte avevo avuto relazioni, in conseguenza della persecuzione, e che sempre mi era apparso un terribile mastino. Egli mi guardò e poi mi disse duramente, ma con una sfumatura di benevolenza. “Bracco ti sei rovinato!” Il mio aspetto, tutt’altro che spaventato, dovette però convincerlo che non ero un individuo completamente equilibrato e perciò senza aggiungere altro ci volto le spalle e si allontanò.

Poco dopo fummo chiamati dagli agenti di custodia e fummo invitati a toglierci le correggie delle scarpe e dei pantaloni e a depositare tutto quello che avevamo nelle tasche.

Io avevo, assieme ad altre cose, una copia del Nuovo Testamento e Salmi e quello mi doveva servire per

esperimentare la fedeltà di Dio. Infatti nel periodo che tutti i fedeli cucivano pagine della Bibbia nell’interno dei loro abiti o l’incollavano fra le suole delle loro scarpe per avere la gioia di poterle portare nell’interno delle prigioni ove era impedita, nel modo più assoluto, la lettura delle Sacre Scritture, io mi ero rifiutato di seguire queste misure di previggenza ed avevo ripetutamente dichiarato: “Sento che Iddio mi aiuterà a portare la Sua parola anche lì dove è combattuta.”

Io perciò lasciai il mio piccolo Nuovo Testamento nel taschino. Ultimato l’inventario degli oggetti consegnati, si avvicinò a me un graduato di polizia per sottopormi alla perquisizione prescritta. Palpò i miei abiti, le mie tasche e giunse con la sua mano al taschino ove avevo lasciato il prezioso libricino.

“Questo non si può tenere!” mi disse risolutamente.

“E’ semplicemente una copia del Nuovo Testamento.” risposi io con una ingenuità naturalissima in quel momento.

Non mi rispose, continuò il suo esame, giunse per la seconda volta con la sua mano al taschino rigonfio e solo allora ripeté: “Questo non si può tenere!” “Ma è la Parola di Dio”, insistei io con semplicità.

L’agente fu vinto, mi aprì la porta della prigione e mi invitò ad entrare. Varcai la soglia della camera squallida e sporca con una gioia nel cuore: avevo la Sacra scrittura con me.

I miei compagni mi seguirono dopo poco ed assieme dividemmo la gioia della vittoria e dividemmo anche il digiuno e l’insonnia. Non ci diedero da mangiare e non riuscimmo a dormire su quell’unico letto comune di tavole infisse nel muro, senza materasso e con una sola coperta sdrucita e sudicia.

Il giorno seguente, alle prime luci dell’alba, ci sentimmo chiamare e con nostra somma sorpresa udimmo la voce della sorella tornata da poco dal confino.

“Dove ti trovi?” chiedemmo.

“Nella cella accanto alla vostra”.

“Come mai?”

“Ieri sera tardi”, ella ci disse, “tornarono nuovamente gli agenti di polizia per arrestarmi quale corresponsabile del!a riunione alla quale io ero assente. Volevano arrestare anche il babbo”, ella continuò, “ma la sua grave malattia lo rendeva intrasportabile”.

Continuammo la conversazione fino ad una interruzione patetica. Le figliuole dimesse dal carcere, trovata la casa nel disordine e nell’abbandono e appreso il motivo della presentita sorpresa (mentre compivano il viaggio di ritorno avevano ricevuto un avvertimento nello Spirito), giunsero al carcere per vedere e baciare la sorella e la mamma. Le fu consentito per pochi istanti e così interruppero brevemente la nostra conversazione.

Giunse il pomeriggio, la porta improvvisamente si aprì: “Si esce?” ci domandammo meravigliati. La nostra meraviglia era delle più legittime, perché quel si esce si riferiva semplicemente ad un trasferimento dalla cosiddetta “camera di sicurezza” al “carcere giudiziario”.

Ci restituirono frettolosamente e alla rinfusa gli oggetti che avevamo depositati e ci spinsero fuori, sotto scorta armata, ove era ad attenderci un carrozzone chiuso, in lamiera grigioverde.

Fummo tutti presi in consegna da altri agenti di polizia e caricati, come merce fuori d’uso, sopra il carrozzone già gremitissimo di criminali prelevati nei diversi quartieri della città.

Nella strada erano ad attenderci un gruppetto di cristiani che vollero tributarci da lontano il loro saluto affettuoso e fraterno.

Il carrozzone fece un giro vizioso per la città e finalmente raggiungemmo il detto carcere giudiziario che ci doveva accogliere.

Furono prima “scaricate” le donne nel reparto riservato a queste e lì ci salutammo con le sorelle incoraggiandoci vicendevolmente nel Signore. Quindi venne il nostro turno; il carrozzone varcò un cancello; poi un altro, un altro ancora e si fermò. Scendemmo insieme a coloro che erano diventati i nostri compagni e a piedi oltrepassammo altri cancelli, altre porte di ferro fino agli uffici ove si dovevano compiere le formalità d’uso:

Impronte digitali.

Generalità.

Versamento del denaro.

Fummo quindi condotti in una piccola cella per il versamento degli oggetti proibiti. Versammo correggie, spille, fibbie e quanto avevamo nelle nostre tasche. Successivamente ci fecero denudare perché gli indumenti potessero essere sottoposti ad un controllo accurato.

Tutto, tutto fu ammucchiato su un tavolo davanti agli occhi nostri.

Fummo invitati a rivestirci; non appena ultimata questa operazione, io stesi con naturalezza la mia mano per riprendere il mio Nuovo Testamento.

“Non puoi prenderlo!” mi disse il capo guardia senza asprezza.

“Perché? – chiesi – E’ la Parola di Dio.” E nel dire così mostrai il libricino aperto al frontespizio. Il severo funzionario accolse la mia naturalezza con benevolenza e mi rispose: ” Lascialo ora, te lo porterò poi in cella. ” E quell’uomo fu verace. Iddio aveva premiata la confidanza che io avevo riposto nel Suo aiuto onnipotente.

Ci accompagnarono in un magazzino e ci caricarono del nostro corredo carcerario: coperta, lenzuola, scodella di alluminio, cucchiaio e forchetta di legno, bicchiere di alluminio ecc.

A notte inoltrata facemmo il nostro ingresso nella nostra nuova residenza. Vale la pena descriverla: una cameretta lunga m. 3, 50 e larga m. 1, 50; fornita di tre piccole brande in ferro e quattro piccolissimi materassi ripieni di paglia. Una finestra in alto con sbarre di ferro robustissime e con persiane di legno volte in alto, uno sgabello di legno e in un angolo un grosso vaso di terracotta.

Nel mezzo, sospesa ad un filo elettrico, una lampadina colorata blu.

Quella la nostra dimora per 23 ore del giorno. Un ora del giorno infatti è riservata per far prendere ” aria ” ai carcerati e questo avviene in cortiletti umidi e ombrosi, e le altre 23 ore devono trascorrere nella cella dove non esiste un gabinetto, non esiste acqua corrente, ove non c’è aria sufficiente e ove non c’è neanche spazio sufficiente per muoversi. Eppure tutto deve compiersi lì, a detrimento del pudore, dell’igiene, del morale. Noi ci accorgemmo dell’esistenza di tre brande e facemmo notare la mancanza della quarta, ma la guardia ci spiegò che lo spazio non consentiva l’esistenza di una quarta branda.

” Se volete”, aggiunse, forse con dispetto, “uno di voi può essere trasferito in altra cella “.

Preferimmo rimanere uniti e presto ci accorgemmo che fra il dormire in terra e il dormire sopra la branda non c’era differenza. La durezza era identica, gli insetti erano abbondanti in ambedue questi luoghi.

In quei giorni si trovavano nel medesimo carcere diversi fratelli condannati precedentemente ed esclusi dall’amnistia; cercammo subito, a mezzo dei secondini, di inviare loro dei messaggi, ma fu una fatica inutile, perché tutti si rifiutarono di prestarsi e tutto quello che potemmo fare fu solo di scambiarci una o due volte un poco di cibo che provvidenzialmente avevamo ricevuto dall’esterno. Dico provvidenzialmente, perché la minestra giornaliera e le due pagnotte di pane, che ci venivano date ogni giorno non erano assolutamente mangiabili. I giorni trascorrevano lentamente e con monotonia che sarebbe stata opprimente se la presenza della Scrittura non ci avesse offerta la frequente possibilità di interromperla. Tutto si svolgeva meccanicamente e uniformemente: sveglia, pulizia della cella, rancio, controlli giornalieri e notturni delle sbarre, distribuzione dell’acqua, ritiro delle immondizie; tutta la vita è racchiusa entro queste cose che serrano la vita più di quanto possa fare la cella stessa.

Noi credenti naturalmente avevamo aggiunte a queste cose preghiera, lettura del Vangelo, conversazioni cristiane, e anche lì brillava il raggio luminoso della speranza e della gioia.

Giunse il giorno del processo; Dio intervenne in un modo prodigioso; fummo miracolosamente assolti; il giudice dichiarò, cosa eccezionale per quell’epoca, che pregare Iddio secondo i dettami della propria coscienza non costituiva reato.

Tornammo in prigione pieni di gioia per l’aiuto divino e, perché no, pieni d’ebbrezza per l’imminente liberazione, ma ci era riservata una sorpresa. Nel pomeriggio non fummo posti in libertà. Chiedemmo spiegazioni e ci fu risposto: “Siete stati assolti dal magistrato, ma ora siete a disposizione della Questura centrale.”

Altre domande che rivolgemmo ci fecero sapere che la questura aveva il diritto di trattenerci in prigione, a propria disposizione, per la durata di sei mesi. Al termine di questo periodo poteva chiedere il nostro trasferimento in una camera di sicurezza per poi rimandarci il giorno seguente nuovamente al carcere; poteva così cominciare un altro periodo di sei mesi.

Con questa procedura burocratica potevamo essere trattenuti in stato di detenzione per anni ed anni. Questa esperienza ci fece vedere chiaramente quali siano le risorse di un regime prevalentemente poliziesco. Esso può operare sempre al di sopra dei diritti umani, delle leggi, della magistratura. La Sua potenza statale e terribile.

Ma Dio aveva cominciato ad operare ed egli non arresta a metà l’opera che vuole portare a termine. Non abbiamo mai saputo quello che fece l’Eterno in quei giorni, ma nel pomeriggio del giorno seguente eravamo nuovamente in libertà, accolti con gioia dai fratelli e tutti assieme allegri nel Signore.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *