Incontri significativi dal Vangelo di Giovanni
CREDERE ALLA PAROLA DI GESÙ!
Il testo di Giovanni 4:46-54 ci permette di conoscere il secondo miracolo realizzato da Gesù in Galilea: la guarigione del figlio di un ufficiale reale.
La lezione che ne ricaviamo ci porta a riflettere sul valore che hanno per il nostro cammino l’ascolto della Parola di Dio e la pronta ubbidienza, senza riserve, alle sue indicazioni.
Gran parte del capitolo quarto del Vangelo di Giovanni è dedicato all’incontro con i Samaritani; ma l’evangelista ci riserva un piccolo brano (vv. 46-54), dedicato a un miracolo (o meglio un segno secondo il linguaggio giovanneo).
Si tratta del secondo miracolo compiuto da Gesù a Cana di Galilea, dopo la trasformazione dell’acqua in vino, al pranzo nuziale (2:1-12).
Guarigione del figlio dell’ufficiale reale
Si tratta della guarigione del figlio di un funzionario reale, in seguito alla richiesta insistente di quest’ultimo.
L’attenzione dell’evangelista è catalizzata appunto dalla sua supplica accorta: il funzionario va da Gesù, ma per pregarlo di andare a casa sua.
È un andare da Gesù che ha bisogno di conversione: non possiamo pregare credendo di piegare il Signore alle nostre necessità e alla nostra volontà.
Infatti Gesù gli risponde con un invito: “Va’”(v. 50) e, proprio quando l’uomo si mette in cammino, gli viene portata la notizia della guarigione del figlio.
Anche il padre dunque ha bisogno di guarigione!
La parola di vita
C’è un crescendo drammatico nelle prime battute del brano: dapprima il figlio viene presentato come malato (v. 46); poi, nelle parole del padre diventa moribondo (v. 47); infine la supplica non lascia più tempo agli indugi e Gesù deve far presto “prima che il mio bambino muoia” (v. 49). In questo scenario di morte imminente, di fronte a questa corsa drammatica e inarrestabile verso la morte, splende la risposta di Gesù, che ricorre ben tre volte nel corso del brano: “Il tuo figlio vive” (vv. 50-53).
In un contesto di morte Gesù ha soltanto parole di vita. La sua è una risposta piena di fiducia e di speranza. È questa d’altra parte la sua missione: il Figlio è venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in esuberanza, cioè pienezza (Gv 10:10).
Il morire del bambino, in greco all’aoristo, come un’azione puntuale, è espresso, nelle parole di Gesù, al presente, in senso prolungato e continuo. La frase ricorre per la prima volta sulle labbra di Gesù nei confronti del padre: quest’uomo si sente dire personalmente la promessa di vita che il Salvatore è venuto a portare.
Immediatamente dopo però se la sente ripetere dai servi lungo la strada; la parola di Gesù passa attraverso la mediazione umana, che la ripete, la ricorda e la mantiene viva. Infine, nella terza ricorrenza, è l’uomo che, solo con sé stesso, fa memoria della parola di vita.
Giovanni delinea come un itinerario di ascolto della parola, in cui nessun elemento è affidato al caso.
Abbandonarsi a Gesù
In questo cammino, è particolarmente importante il rapporto tra i segni compiuti da Gesù e la fede del discepolo. Il Salvatore sembra aver parole di dura condanna di fronte alla richiesta dell’uomo: “Se non vedete segni e miracoli, voi non crederete.” (v. 48) Questa esperienza riecheggia quella più conosciuta dell’apostolo Tommaso in merito alla resurrezione di Gesù (Gv 20:29).
Nella logica umana i segni diventano la condizione per credere e così, sotto la croce, i soldati romani si diranno disposti a credere purché il Messia scenda dalla croce; ci sarà però un centurione che crede proprio perché ha visto morire Gesù in quel modo così profondamente umano: “Veramente quest’uomo era il Figlio di Dio!” (Marco 15:39).
In fondo è la tentazione diabolica espressa nel racconto della triplice tentazione di Gesù (Mt 4): se Gesù è veramente il Figlio di Dio deve comportarsi in un certo modo…
Il rischio è porre condizioni a Dio, mentre la vera fede, che nasce dall’ascolto, è un abbandonarsi senza riserve.
Il pane disceso dal cielo
Il vero rapporto dell’uomo con Gesù è dato anche dall’uso del verbo “scendere”. Questo padre prega Gesù di “scendere” a casa sua (v. 47), quasi per costringerlo a piegarsi alle proprie esigenze. Eppure, senza volerlo, quest’uomo permette al Figlio di Dio di realizzare la sua missione. Nel Vangelo di Giovanni infatti il verbo in questione corrisponde precisamente alla missione del Figlio, che è disceso dal cielo per permettere all’uomo di entrare nella famiglia di Dio:
“Nessuno è salito in cielo se non colui che è disceso dal cielo: il Figlio dell’uomo che è nel cielo” (Gv 3:13).
Nel discorso sul pane di vita (cap. 6) questo tema ricorre con insistenza particolare:
“Il pan di Dio è quello che scende dal cielo e dà vita al mondo” (v. 33);
“Son disceso dal cielo per fare, non la mia volontà ma la volontà di colui che mi ha mandato” (v 38);
“Io sono il pane che è disceso dal cielo” (v. 41);
“Io sono disceso dal cielo” (v. 42);
“Questo è il pane che discende dal cielo, affinché chi ne mangia non muoia” (v 50);
“Io sono il pane vivente, che è disceso dal cielo; se uno mangia di questo pane vivrà in eterno; e il pane che darò io è la mia carne, che darò per la vita del mondo” (v 51);
“Questo è il pane che è disceso dal cielo, non quale era quello che i padri mangiarono e morirono; chi mangia di questo pane vivrà in eterno” (v 58).
Gesù stabilisce un rapporto stretto fra il mistero della sua condiscendenza, il suo “scendere” dal cielo, da Dio, e il dono della vita, una vita eterna, divina. Come nel nostro brano, la discesa (incarnazione) del figlio è in ordine al dono di una vita in pienezza.
Inconsapevolmente il padre del bambino malato chiede al Signore di portare a compimento la sua missione. È il desiderio, più o meno cosciente, dell’uomo, di ogni uomo.
Nel nostro racconto però è proprio quando l’uomo impara a “scendere”, sull’esempio di Gesù (v. 51) che viene annunciata la parola di salvezza.
Il padre insegna a ogni discepolo il cammino per entrare nel mistero della condiscendenza divina; a che cosa serve l’adorazione se non per imparare a essere presenti ad ogni cosa e ad ogni persona?
La fede che salva
Quell’uomo però “credette alla Parola” (v. 50) e si mise in cammino. Giovanni non accenna minimamente ai possibili meriti dell’uomo: ne parla invece Luca nel brano parallelo (7:4-5). Qui infatti i discepoli pregano con insistenza Gesù:
“Egli è degno che tu gli conceda questo, perché ama la nostra nazione ed è lui che ci ha edificato la sinagoga”.
Per Giovanni non c’è merito umano che tenga: solo la fede garantisce il vero rapporto con il Salvatore. Perciò quell’uomo “credette alla parola”: la pienezza del suo itinerario di fede si ha nel momento della memoria della Parola quando “credette lui con tutta la sua casa” (v. 53). La fede di uno solo è diventata una forza contagiosa!
L’ora della pienezza di vita
Giovanni, come in altri casi, ricorda anche l’ora dell’avvenimento, che riveste per lui una portata simbolica. L’ora della guarigione, l’una del pomeriggio, è in greco l’ora settima (v. 52).
Sappiamo che il numero sette riveste nella Bibbia un’importanza particolare ed è simbolo di pienezza e di totalità.
L’ora della vera guarigione è l’ora dell’ascolto della Parola di Gesù; l’ora della pienezza è appunto l’ascolto attento della Parola e l’abbandono fiducioso e consapevole.
L’obbedienza della fede
Quell’uomo è un funzionario del re. Ha un sovrano al di sopra: è abituato, non tanto a ubbidire, quanto a eseguire materialmente degli ordini. Gesù gli chiede l’obbedienza della fede, una fiducia piena nell’efficacia della sua Parola, perché impari a dire come Pietro: “Alla tua parola, calerò le reti” (Lu 5:5). È abituato a dare ordini e a comandare. Di fronte a Gesù impara a sottomettersi e apprende la via dell’umiltà.
Il funzionario di Capernaum, pregando Gesù di “scendere a guarire il figlio” permette al Figlio di Dio di realizzare la sua missione. L’incarnazione della parola è infatti in ordine alla nostra salvezza:
“Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo”.
La concretezza del verbo “scendere” è confermata geograficamente dal dislivello di 800 metri che intercorre tra Cana di Galilea (dove Gesù si trova) e Capernaum (dove giace il fanciullo).
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