Perché vivo ? Da dove vengo ? dove vado ? Mi restano ancora molte vite da vivere, o soltanto una? Esistono risposte attendibili? Chi ci vede chiaro?
E’ di capitale importanza interrogarci sul senso e sullo scopo della nostra vita perché ne abbiamo una sola!
Molte cose si possono ripetere nella vita. Nella maggior parte dei casi, quando non si supera un esame, c’è la possibilità di ripresentarsi una seconda volta.
La nostra vita però, non è come una traccia sonora che si può cancellare quando la prima registrazione viene male, bensì è simile a una clessidra, la cui sabbia scorre lenta e silenziosa, ma senza alcuna possibilità di trattenerla; la nostra vita si può paragonare anche a una candela accesa che si va poco alla volta consumando finché anche l’ultimo lucignolo non si
sia spento.
Molti di coloro che si trovano in carcere sono soliti tracciare una serie di lineette con cui segnano ogni giorno già trascorso, vedendo così avvicinarsi il momento in cui saranno in libertà.
Pensandoci bene, non sarebbe una cattiva idea se ognuno di noi facesse altrettanto con la propria esistenza; chissà, forse allora saremmo più coscienti del fatto che ogni giorno della nostra vita è unico e importante.
Arriverà, una volta o l’altra è cosa inevitabile e irrimediabile anche per noi l’ultimo giorno da vivere.
In quel momento la domanda se la nostra vita passata ha avuto un senso e, se ha raggiunto il suo scopo, riceverà una chiara risposta.
In fondo, è difficile comprendere come i giovani siano a volte così superficiali e sconsiderati da non riflettere sul senso della vita e, che gli anziani eludano la questione pensando che la propria esistenza è già passata via o quasi.
Ricordo una campagna evangelistica fatta in una casa di correzione per minorenni a Siegburg. Un’organizzazione dedita all’aiuto di carcerati ed ex reclusi, aveva preparato un programma di vari giorni che includeva canzoni, scenette, testimonianze e un breve messaggio che avrei dovuto condividere io.
Ogni sera si accalcavano sugli scomodi banchi della cappella fra i sessanta e i 100 di questi giovani, chiacchierando, masticando gomme e sghignazzando provocatoriamente, pronti a sfogare la loro collera alla prima occasione propizia. Non dovettero aspettare molto, perché il mio messaggio aveva per titolo: «i quattro vantaggi di un carcerato a Siegburg.»
Quando iniziai a spiegare nel primo punto che nel carcere, se paragonati ad altre persone, essi almeno avevano il vantaggio di avere tempo per riflettere sulla propria vita, i primi già cominciarono a mugugnare. Quando sottolineai loro con insistenza che, proprio per quello stesso vantaggio, non avrebbero continuato a danneggiarsi quel poco residuo di cervello che gli rimaneva e, che avrebbero smesso di intontirsi con le droghe, l’ira che ne scaturì fu grande.
Alla fine di quella settimana, alcuni di questi giovani chiesero di parlare da soli con noi e, riconobbero che davvero era stato il carcere, il posto dove, per la prima volta, avevano avuto modo di riflettere sulla propria vita e sulla loro relazione con Dio.
È tragico pensare che la maggior parte delle persone cominci a porsi la domanda più importante della loro vita solamente quando si ammalano o si ritrovano ad affrontare una crisi. La nostra vita, però, non sola è unica, ma è altresì corta, e molto breve, e ciò conferisce un peso decisivo alla domanda circa la nostra origine e il nostro destino.
Non so se a voi succede come a me; ma più gli anni passano, più ho l’impressione che le lancette dell’orologio corrano sempre più in fretta e sembra che il tempo scorra via a una velocità vertiginosa.
Quando ero in età prescolare, la siesta obbligatoria di un’ora mi sembrava durare un’eternità. Durante la scuola elementare, solo alcuni anni dopo, il lunedì mattina, il tanto sospirato fine settimana sembrava infinitamente lontano. Finalmente, quando iniziai il mio apprendistato, nel corso del quale tutte le mattine, agli ordini di un capo molto scrupoloso, dovevo spolverare piuttosto annoiato ogni cosa per un’ora, non riuscivo proprio a immaginare come sarebbero trascorsi i successivi orribili tre anni che ancora avevo davanti.
Una volta trascorsa la prima metà della vita, gli anni successivi scorrono via veloci come gli ultimi granelli della sabbia di una clessidra.
Qualcuno, rientrando probabilmente dopo una visita al cimitero, espresse a parole una convinzione profonda e commovente: « la nostra vita è soltanto un trattino meno fra due date»; così corta, eppure così decisiva!
Che tragedia sarà se, in mezzo a tanto correre e via vai, non avremo avuto il tempo di pensare al senso della nostra vita, se non quando ci ritroveremo ormai sul letto di morte, ammesso che avremo il modo di farlo allora.
La risposta dei filosofi:
I filosofi e i poeti moderni non hanno trovato una risposta alla questione sul senso della vita. La maggior parte di loro definì la vita «assurda». Sartre affermò che «siamo condannati a esistere», o «condannati a essere liberi».
Albert Camus sostenne che «in quest’universo glaciale, trasparente e limitato bisogna rassegnarsi al fatto che non può esserci speranza, quindi, nessuna consolazione».
Anni fa visitai un’esposizione mondiale a Losanna.
All’entrata del recinto fieristico si poteva ammirare un enorme mostro di ferro. Stridendo e rombando, innumerevoli ripiani salivano per poi ridiscendere rumorosamente, mentre un’infinità di ruote girava e, tutto era in movimento all’interno di questo gigantesco congegno.
Dopo aver riflettuto per qualche tempo davanti a questa costruzione, si arrivava alla conclusione che questo colosso aveva la funzione di emettere soltanto rumore per nulla o, forse, si intendeva mostrare ai visitatori la mancanza di senso della vita.
Il costruttore di questa macchina, forse, era a modo suo un piccolo filosofo, che esprimeva quel che il saggio Salomone riconobbe parecchie migliaia di anni fa «tutto è vanità e afflizione di spirito».
«La mia vita non è altro che solitudine»
Janis Joplin celebrata come regina del rock negli anni 60 e, adorata dai giovani americani come una dea, definiva la vita come una «danza intorno al vitello d’oro».
Un giornalista le chiese una volta quale fosse il senso della sua vita. La sua risposta fu: «Ubriacarmi, continuare a essere felice e godermi i momenti migliori. Io faccio della mia vita proprio quello che voglio; intendo solo spassarmela. Non credo ci si possa augurare di meglio.»
A un amico Janis disse: «Meglio vivere dieci anni traboccanti di felicità sfrenata, che arrivare ai settanta per starsene seduta su una maledetta poltrona a guardare la TV.»
Purtroppo non arrivò neanche ai trenta, perché morì a ventisette anni, dopo il suo settimo tentativo di suicidio.
Lei, che durante i suoi concerti sfrenati teneva sempre in mano una bottiglia di whisky, deliberò nel suo testamento che i suoi amici bevessero alla sua salute col suo denaro. Infatti, i suoi 200 fans adempirono
il suo desiderio e con i suoi 2500 dollari si ubriacarono durante una festa a San Anselmo, mentre le sue ceneri erano sparse nel Pacifico, secondo le sue ultime volontà. Una delle sue ultime canzoni s’intitolava «La vita non è altro che solitudine».
Alcuni giorni prima era stato sepolto Jimi Hendrix, il famoso «re della musica rock». Un noto critico musicale espresse l’opinione che Hendrix possibilmente è stato il più grande musicista della sua generazione.
Ognuno dei suoi dischi vendeva più di un milione di copie. Per un concerto gli pagavano allora l’incredibile cifra di 100.000 dollari. Era un uomo sfrenato, dedito agli eccessi, aggressivo e tossicomane. Spesso
faceva a pezzi tutto ciò che era sul palco, oltre a un buon numero di chitarre.
Hendrix guidava le più costose auto sportive, buttava il denaro dalla finestra ma, nonostante tutto, era un uomo infelice. Una volta disse al pubblico: «Dovete vestirvi a lutto quando nasce un bambino, quando un neonato viene a questo maledetto mondo.»
Una delle sue canzoni evidenzia chiaramente come neanche lui poteva rispondere alla domanda sul senso della vita: «Vivrò domani?
Non posso affermarlo. Quel che so è che oggi non vivo.»
Il 18 settembre del 1970 la carriera leggendaria di Jimi Hendrix giunse improvvisamente al termine. Lo trovarono in un hotel di Londra, soffocato dal suo stesso vomito, dopo aver ingerito alcool e sonniferi.
Con le sue ultime forze si era trascinato fino al telefono. La segreteria automatica dall’altra parte del filo registrò le sue ultime parole: «Ehi tu, ho bisogno d’aiuto maledizione!»
Si potrebbe, inoltre, ricordare Elvis Presley, la cui tomba si è trasformata in un oggetto di venerazione. Potremmo ricordarne la ghiottoneria, la tossicomania, la sua paura sia della vita sia della morte.
Elvis che, incitato dagli urli del pubblico a volte, si faceva portare in scena su una Cadillac dotata di accessori in oro con tettuccio apribile, sebbene vivesse in un edificio simile a un castello come in una gabbia dorata, circondato da guardie del corpo, finì per celebrare il suo 40° compleanno a letto, troppo depresso da rimanervi. Negli ultimi anni della sua vita, poté mantenersi a galla solo grazie al gran numero di psicofarmaci che ingeriva.
Nell’anno della sua morte pesava centoventicinque chili; morì il 16 agosto del 1977 all’età di quarantadue anni per collasso circolatorio.
Dopo la sua morte, uno dei suoi fans fece un amaro riassunto della sua esistenza: «Tutto ciò che potemmo dargli, fu ammirazione e adorazione, cose che lo snaturarono e lo resero così superficiale, piatto e bidimensionale, da renderlo simile a quel suo poster che tengo appeso nella mia stanza.»
Potremmo citare un buon numero di nomi conosciuti fra le stelle della musica e del cinema, come Jim Morrison o Kurt Cobain, cantante del gruppo Nirvana, che posero fine alla loro vita suicidandosi, assumendo
un’overdose di eroina o giocando alla roulette russa.
Né l’ammirazione dei loro entusiasti seguaci, neanche il potere esercitato sugli altri, ancor meno, l’abbondanza di denaro o il consumo di droga: tutto ciò non rese le loro vite degne di essere vissute.
Possibilmente questi esempi provocheranno in qualcuno
una reazione di difesa interiore: «Questi sono casi estremi. Io non sono né un re del rock, né una star di Hollywood, bensì una persona normale, che ha appena il necessario per vivere, per pagare a poco a poco la sua casa, mantenere il suo piccolo orto e andare in ferie una volta l’anno.»
Forse appartenete alla generazione del dopoguerra, la quale pensava che il suo compito fosse di far uscire il proprio paese dalla rovina.
Magari avete lavorato e risparmiato al fine di acquistare quello che sognavate per anni; o per offrire ai figli ciò che voi stessi avete desiderato in gioventù senza poterlo mai ottenere: perciò fate lunghe ore di straordinario, rovinando la salute e, rischiando un infarto precoce.
I vostri discendenti, un giorno o l’altro comporranno un epitaffio inserendolo in un magnifico articolo necrologico: «Il lavoro fu la sua vita, non pensò mai a se stesso, tutto il suo affanno fu rivolto al bene dei suoi.» Vale proprio la pena di vivere solo per questo?
«Il mondo è bello…»
Ci sono i nostri contemporanei, nonostante tutte le prospettive nefaste che il futuro sembra comportare, continua a vedere tutto rosa: «Che vai dicendo? La vita è bella – e anche il mondo. Tu non guastarci il
buon umore, con le tue idee pessimistiche. Goditi la bellezza della natura, ascolta ‹I notturni› di Mozart o ‹La Trota› di Schubert, e se è necessaria anche musica folcloristica, però almeno spassatela! Chi non ama il
vino, le donne e il canto sarà sempre e solo uno stolto e nient’altro.»
Si tratta di persone che vivono cercando di reprimere in continuazione le negatività. Ignorano deliberatamente che siamo circondati da boschi che stanno morendo e, che siamo assediati dalle armi nucleari.
Si dimenticano che i nostri mari ogni anno servono da discarica per ogni genere di rifiuti tossici e, che il cancro e l’AIDS stanno invadendo i nostri paesi come la peste nera di medioevale memoria.
Ricordiamoci il coro della canzone di Gilbert Becaud «Il mondo è bello…», e il grido d’allarme del cantante nel finale: «No, no, no – il mondo è bello, lo è solo quando sogniamo!
Come ti spieghi che la gente rida sapendo che domani il mondo potrebbe incendiarsi?» «Non ci pensare!»
Questo è, sicuramente, il motto di tante altre persone; tornano a casa dopo il lavoro, col giornale sotto il braccio, con la voglia di riposare, mettersi in pantofole, bere una bella birra e guardare il calcio in TV.
Così, questa gente si comporta una settimana dopo l’altra e, un anno dopo l’altro.
Si ammazza il tempo e si vive di seconda mano, guardando la vita attraverso la tv. Solo quando si guasta il televisore o, manca la luce, si esce da questa routine. La nostra vita, però, non è un gioco senza frontiere; anche se oggi si tenta in tutti i modi di cacciare ogni pensiero della morte, ciò non cambia che ogni quotidiano contenga notizie funeste e necrologi che, un giorno o l’altro, «la dama nera con la falce» busserà
alla nostra porta.
Durante la mia fanciullezza, sulle strade lastricate, si udiva ancora il fracasso delle ruote dei carri funebri tirati dai cavalli e, ogni qualvolta li vedevamo, quasi venivamo meno dalla paura. Oggi si è passati ad auto silenziose che a volte hanno delle tinte gaie, per distrarci in qualche modo dall’orrore della morte.
Nelle passate generazioni, la gente soleva prepararsi a morire e, desiderava congedarsi coscientemente dai propri parenti.
Oggigiorno invece, si muore generalmente esanimi e senza dolore, perché si è sotto l’influsso di sedativi, in una stanza appartata dell’ospedale, cui si accedenmagari da un corridoio laterale o dal retro collegati a sonde.
Così la vita si spegne in solitudine e tutto questo, si pretende poi di chiamarlo «umanizzare la morte».
Tanta voglia di rimozione ed evasione, non impedisce al pensiero della morte di assalirci come un fantasma, privandoci della nostra serenità; specialmente quando non possiamo evitare di assistere a un funerale.
E’ interessante osservare le facce delle persone che assistono a una sepoltura. Gli sguardi sono fissi sulla tomba e lo sconcerto è grande. All’improvviso s’impone il pensiero del proprio seppellimento.
Ci assale l’idea raccapricciante di essere messi in una bara come quella, forse per morte apparente, ed essere poi chissà, sepolti vivi dovendo asfissiarvi dentro. Finalmente prevale un senso di sollievo quando si terminano le cerimonie e, tutti quei brutti pensieri si dissipano, mentre sorseggiamo un bicchierino o torniamo a contemplare la vita allegra trasmessa dalla TV.
E’ strano. Pensiamo a tutte le possibili evenienze e stipuliamo un buon numero di polizze assicurative per ogni tipo di circostanze; però non consideriamo, invece, l’unico fatto assolutamente sicuro e irrevocabile:
un giorno o l’altro dovremo morire.
Mio figlio maggiore aveva circa diciotto anni; un giorno entrai all’improvviso nella sua stanza. Stava seduto alla sua scrivania e, subito cercò di nascondere sconcertato un foglio. Gli chiesi cosa stesse occultando, al che mi rispose un po’ titubante: «Sto scrivendo il mio testamento!»
Confesso che in quel momento l’episodio mi fece trasalire.
Il mio primo pensiero fu: il ragazzo starà soffrendo per un amore non corrisposto o, non ci sta più con la testa.
Un giovane nel fiore degli anni che pensa a chi erediterà le sue scarse sostanze non è mica normale, no?
Subito dopo mi sentii compunto interiormente, pur avendo ventiquattro anni più di lui, non avevo ancora fatto testamento!
Non è forse saggio e ragionevole considerare la vita sedendo «sulla cattedra della morte», come sosteneva Matthias Claudius?
Sicuramente, molte cose le faremmo meglio, o magari in modo diverso; e moltissime altre smetteremmo proprio di farle, se solo fossimo più coscienti della brevità e fugacità della vita.
C’è una risposta?
Ricordo bene il giorno in cui inaugurai la mia prima macchina per scrivere elettronica, equipaggiata di memoria e display. Fino a quel momento ero abituato a quelle meccaniche o elettriche usuali e, pensavo che me la sarei cavata anche con i comandi di questo nuovo congegno.
Leggere quelle istruzioni così lunghe, e scritte inoltre in modo piuttosto complicato, mi sembrava proprio
una perdita di tempo. Mi misi a scrivere, finché non premetti un tasto sbagliato. La macchina iniziò a emettere un suono acuto ogni qualvolta premevo un tasto e, sul display apparve la parola: «No! No! No!»
Non veniva fuori nient’altro. Arrabbiato, presi il libro delle istruzioni cominciai a leggere proprio all’inizio.
La prima frase sembrava prendersi gioco di me: «Se vuole essere soddisfatto dalle prestazioni del suo apparecchio, legga prima attentamente le istruzioni.»
Non succede lo stesso anche con la nostra vita?
Ci diamo alla pazza gioia, pensiamo di essere furbi a un tratto, ci confrontiamo con problemi irrisolvibili e una vocina dentro di noi grida: «No! No! No!»
Come sarebbe bello avere a portata di mano le istruzioni per l’uso della nostra vita, che ci insegnano come possiamo disporne al meglio e riuscire a vivere una vita che meriti di essere chiamata tale. Per sapere
come funziona questa macchina complicata, che è l’uomo, bisogna interrogare colui che l’ha inventata e seguirne le istruzioni.
Riconosco che, occorrono sia tempo sia una mente libera, al fine di capire il libro delle istruzioni dato da Dio per l’uomo, cioè la Bibbia.
A chi è abituato a leggere solo Topolino e giornaletti vari, all’inizio provocherà un po’ di fatica comprendere un testo senza immagini e fumetti; però è l’unico modo ragionevole per verificare qualcosa di certo sull’origine, il destino e la ragione della nostra vita, e uscire così dal vicolo
cieco.
Che cosa dice il Creatore sullo scopo della nostra
vita?
Fra i tanti episodi narrati nel Nuovo Testamento sulla vita di Gesù, c’è un racconto interessante. Un uomo colto, si diresse prontamente a Gesù rivolgendogli una domanda che lo tormentava da molto tempo
(scrivo con parole mie): «Gran maestro, pur avendo studiato teologia, è da qualche tempo che mi pongo un quesito, cui non riesco ancora
a dare una risposta: Cos’aveva in mente Dio quando creò l’uomo? Qual è la sua missione qui, sulla terra? Che cosa da
un valore alla vita?»
Questo è quanto Gesù gli rispose:
«Molto volentieri ti dirò ciò che Dio si aspetta da te e il motivo per cui ti trovi qui sulla terra: che tu ami il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente; allo stesso tempo hai un altro grande compito: Amerai il tuo prossimo come te stesso.
Questo è il proposito di Dio per la tua vita!»
La risposta che Gesù diede a quest’uomo erudito possibilmente ci scandalizzerà, proprio come la scoperta di Galileo scandalizzò i suoi contemporanei, stravolgendo la loro visione miope delle cose.
Chiunque sia disposto a modificare le proprie idee e ad accettare gli insegnamenti del nostro Creatore, scoprirà che seguendo le istruzioni troverà libertà, gioia e pace.
Esattamente come accade a un pesce che si dimena disperatamente per terra e poi è rigettato in acqua o, quando si ridà la libertà a un uccello chiuso in gabbia.
Tutto il resto vorrebbe dire mancare il bersaglio, o per usare un termine biblico: peccato.
Wolfgang Bühne
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