LIMITI E RAGIONEVOLEZZA DELL’ABNEGAZIONE di George Whitefield
“Diceva poi a tutti: Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua” (Luca 9:23).
Chiunque legge il vangelo con intenzioni sincere, vedrà che il nostro benedetto Signore ricordava in ogni occasione ai suoi discepoli che il Suo regno non è di questo mondo; che la Sua dottrina è la dottrina della croce; e che coloro che si professano Suoi seguaci, devono accettare volontariamente le sofferenze seguendoLo con abnegazione.
Le parole del testo ci forniscono un esempio, tra i tanti, del comportamento del nostro salvatore riguardo a questo argomento: nei versi precedenti leggiamo che si era rivelato a Pietro e agli altri apostoli come “il Cristo di Dio”; ma, affinché essi non insuperbissero per una tale rivelazione della Sua divinità, o pensassero che la loro relazione con un personaggio così grande fosse seguita da null’altro che sfarzo e magnificenza, Gesù dice loro, al verso 22, che “bisogna che il Figlio dell’uomo soffra molte cose” in questo mondo, sebbene Egli doveva essere incoronato di eterna gloria e onore nel mondo a venire; e che chiunque tra di loro o tra la loro posterità voglia condividere lo stesso onore, deve portare anche lui una parte delle sue sofferenze, e vivere con abnegazione. Poiché Egli disse a tutti: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”.
Da queste parole voglio considerare queste tre cose:
1. come prima cosa, il tipo di abnegazione che ci viene raccomandata nel testo; e in che modo dobbiamo rinunciare a noi stessi, per seguire Gesù Cristo;
2. come seconda cosa, cercherò di provare l’universalità e la ragionevolezza del dovere dell’abnegazione cristiana;
3. come terza cosa, farò alcune considerazioni che possano aiutarci a comprendere e a praticare con zelo l’abnegazione.
Innanzi tutto, parlerò della natura dell’abnegazione raccomandataci dal vangelo; ovvero in che modo dobbiamo rinnegare noi stessi per poter seguire Gesù Cristo.
Ora, come le facoltà dell’anima sono distinte dall’intelligenza, dalla volontà e dagli affetti, così in tutte queste cose dobbiamo rinunciare a noi stessi. Non dobbiamo appoggiarci al nostro discernimento, essendo saggi ai nostri stessi occhi, e intelligenti davanti a noi stessi (cfr. Isaia 5:21), ma dobbiamo sottomettere la nostra ragione limitata alla luce della rivelazione divina. Ci sono misteri nella religione che sono superiori, se non contrari al nostro intelletto naturale; e quindi non saremo mai Cristiani fino a quando non mettiamo da parte l’immaginazione e ogni cosa “che si eleva contro la conoscenza di Dio e rendiamo sottomesso ogni pensiero all’ubbidienza di Cristo” (2 Corinzi 10:5). È per questo che noi, per usare le parole di Paolo, dobbiamo diventare “pazzi a causa di Cristo” (cfr. 1 Corinzi 4:10), riconoscendo che non sappiamo nulla tranne ciò che ci è stato rivelato nella Parola di Dio. Dobbiamo, con ogni umiltà e riverenza, abbracciare le verità rivelateci nelle Sacre Scritture; perché solo in questo modo possiamo davvero diventare saggi, di quella sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù (cfr. 2 Timoteo 3:15). Fu motivo di lode al Padre da parte del nostro benedetto Signore Gesù, il fatto che Dio abbia “nascosto queste cose ai savi e agli intelligenti”, rivelandole “ai piccoli fanciulli” (cfr. Matteo 11:25). E per questo dobbiamo convertirci e diventare come piccoli fanciulli (cfr. Matteo 18:3), disposti a imparare, e desiderosi di seguire l’Agnello in qualunque mistero Egli si compiaccia di guidarci; e credere e praticare tutte le verità divine, non perché possiamo dimostrarle, ma perché “Dio, che non può mentire” (Tito 1:2), ce le ha rivelate.
Da qui possiamo risalire alla fonte dell’infedeltà; perché è solo per l’orgoglio della propria intelligenza, e riluttanza a sottomettersi alle verità di Dio, che molti che si professano savi diventano stolti al punto di rinnegare il Signore, che li ha acquistati a così caro prezzo, e a disputare sulla divinità della Parola eterna, nella quale “viviamo, ci muoviamo e siamo” (Atti 17:28). Ed è dunque temuto a ragione, che essi in tal modo attirino su di sé distruzione certa e immediata.
Ma, come dobbiamo rinnegare noi stessi nella nostra intelligenza, così dobbiamo rinnegare o, per usare un termine più adatto, rinunciare alla nostra volontà; cioè, dobbiamo far si che non sia la nostra volontà a guidarci, ma anzi, “sia che mangiamo, sia che beviamo, sia che facciamo alcun’altra cosa, dobbiamo fare tutte le cose alla gloria di Dio” (cfr. 1 Corinzi 10:31). Non dobbiamo però pensare che non dobbiamo gioire in quello che facciamo, poiché “le vie della saggezza sono piacevoli”; ma piacere a noi stessi non deve essere lo scopo principale, ma solo un risultato delle nostre azioni.
E voglio particolarmente cercare di inculcarvi questa dottrina, perché è il grande segreto della nostra santa religione. È questo, miei fratelli e sorelle, che distingue i veri Cristiani dai meri moralisti e formali professanti; e senza questo nessuna delle nostre azioni è accettevole agli occhi di Dio: poiché se “l’occhio tuo è puro”, dice il nostro benedetto Signore, in Matteo 6:22, cioè se vuoi semplicemente piacere a Dio, senza importartene della tua volontà, “tutto il tuo corpo” (tutte le tue azioni) “sarà illuminato”, cioè conforme al vangelo, che è chiamato luce; “ma se il tuo occhio è malvagio” (se le tue intenzioni sono deviate in altri modi) “tutto il tuo corpo” (tutte le tue opere) “sarà nelle tenebre”, cioè peccaminoso e infruttuoso; non dobbiamo solo fare la volontà di Dio, ma dobbiamo farla perché è la Sua volontà, se è vero che quando preghiamo diciamo “Sia fatta la tua volontà in terra come in cielo”. E, senza dubbio, gli angeli benedetti non solo fanno ogni cosa che Dio vuole, ma lo fanno con gioia, secondo questo principio, perché Dio lo vuole: e se vogliamo che quanto diciamo in preghiera si concretizzi nella nostra vita, dobbiamo andare e fare lo stesso anche noi.
Ma oltre a questo, come dobbiamo rinunciare alle nostre volontà quando facciamo qualcosa, allo stesso modo dobbiamo rinunciarvi nel sottometterci alla volontà di Dio. Qualunque cosa ci accada, dobbiamo dire con il buon vecchio sacerdote Eli: “Egli è il Signore: faccia quello che gli parrà bene” (1 Samuele 3:18). O, con uno che era infinitamente più grande di Eli: “Padre… non sia fatta la mia volontà, ma la tua” (Luca 22:42). Oh Gesù, la Tua era una volontà innocente, eppure Tu vi hai rinunciato. Insegna anche a noi, oh nostro Salvatore, a sottomettere le nostre volontà alla tua, in tutte le distrette che attraverseremo; e in ogni cosa dacci grazia di ringraziarti, perché la Tua benedetta volontà è nel nostro interesse!
Inoltre, dobbiamo rinunciare a noi stessi, come nella nostra sapienza e volontà, così pure nei nostri affetti. In particolare, dobbiamo negare a noi stessi l’indulgere nei piaceri e nelle ricchezze della vita: “Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”. E di nuovo (per dimostrare l’incompatibilità dell’amore per le cose del mondo con l’amore del Padre), Egli ci dice: “ognuno di voi che non rinunzia a tutto ciò che ha, non può essere mio discepolo” (Luca 14:33).
Questi versi non vanno interpretati in senso letterale, come se obbligassero le persone ricche a vendere tutto quello che hanno per darlo ai poveri (poiché così facendo non potrebbero più essere d’aiuto ai poveri in futuro), ma certamente significa che dobbiamo lasciare, vendere e abbandonare tutte le passioni, ed essere disposti ad abbandonare ogni cosa, quando Dio ce lo chiederà: cioè, come fa osservare l’apostolo, dobbiamo “usare di questo mondo come se non lo usassimo” (cfr. 1 Corinzi 7:31); e sebbene siamo nel mondo, non dobbiamo essere del mondo. Dobbiamo guardare a noi stessi come amministratori, e non proprietari, dei numerosi doni di Dio; pensare prima a quello che serve per noi e per la nostra casa, e spendere il resto non in frivolezze e superflui ornamenti, vietati dall’apostolo, ma in abiti, nutrimento, e soccorso per gli ignudi, affamati, sofferenti discepoli di Gesù Cristo. Questo è quanto il nostro benedetto Signore vorrebbe che noi capissimo quando parla di rinunciare a tutto, e in questo senso ognuno di noi deve rinunciare a se stesso.
Immagino che questo parlare possa sembrare un duro a molti, che ne saranno offesi perché sono pieni di concupiscenze, e “amanti dei piaceri invece che amanti di Dio” (2 Timoteo 3:4); ma se io accondiscendessi a tali uomini, non dovrei essere un servo di Cristo. No, non dobbiamo avere, come i falsi profeti di Achab, uno spirito di menzogna nella nostra bocca, ma dichiarare fedelmente tutta la volontà di Dio; e, come l’onesto Michea, con pietà e compassione, dire agli uomini la verità, anche se essi possono falsamente pensare che profetizziamo il male anziché ciò che è bene per loro.
Ma andiamo avanti: come dobbiamo rinunciare alle ricchezze, così pure dobbiamo rinunciare agli affetti per quelle relazioni che sono in contrasto con il nostro l’amore per Dio e con l’opera sua: perché così dice il Salvatore del mondo: “Se uno viene a me e non odia suo padre e sua madre, moglie e figli fratelli e sorelle e perfino la sua propria vita, non può essere mio discepolo” (Luca 14:26). Strana dottrina questa! Cosa, odiare la nostra stessa carne! Cosa, odiare il padre che ci ha generati, la madre che ci ha portati in grembo! Come possono essere queste cose? Può Iddio contraddirsi? Non ci ha forse comandato di onorare nostro padre e nostra madre? Eppure qui ci viene comandato di odiarli. Come possono essere riconciliate queste verità? Interpretando la parola odio, non in senso rigoroso e assoluto, ma comparativo: non implicando una totale alienazione, ma un grado inferiore di affetto. Perché lo stesso nostro benedetto Salvatore (la persona più affidabile per spiegare le Sue dottrine) spiega in un testo parallelo, Matteo 10:37: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; e chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me”. Così, quando le persuasioni dei nostri amici (che possono essere permesse per provarci) sono contrarie alla volontà di Dio, dobbiamo dire con l’apostolo: “non li conosciamo”; o, conformemente al rimprovero che il nostro benedetto Signore fece a Pietro: “Vattene lontano da me, Satana, perché tu non hai il senso delle cose di Dio, ma delle cose degli uomini” (Marco 8:33).
Inoltre, dobbiamo rinunciare a noi stessi nelle cose senza importanza; perché è facile dimostrare come molti, se non la maggioranza, periscono proprio a causa di un uso smodato delle cose inutili, come accade per i peccati grossolani. I Cristiani avveduti, dunque, non devono considerare solo quello che è lecito, ma anche quello che è opportuno; non tanto il grado di abnegazione che meglio si adatta alle proprie inclinazioni, quanto ciò che effettivamente può domare la propria volontà in modo da essere adatti per una gloria maggiore in seguito.
Infine, per concludere questa prima parte, dobbiamo rinunciare alla nostra giustizia: perché se anche distribuissimo tutti i nostri beni per nutrire i poveri, e i nostri corpi per essere arsi, e non confidiamo pienamente nella perfetta e sufficiente giustizia di Gesù Cristo, non ci gioverà a nulla. “Perché il fine della legge è Cristo, per la giustificazione di ognuno che crede” (Romani 10:4). Siamo completi in Lui, e in Lui soltanto. La nostra giustizia è “come un abito sporco” (Isaia 64:6). Dobbiamo considerare tutte le cose come tanta spazzatura, in modo da poter essere trovati in Lui, non avendo una giustizia nostra, ma la giustizia imputata da Dio attraverso Gesù Cristo nostro Signore (cfr. Filippesi 3:8-9).
E non è forse questa la dottrina della Cristianità? E dunque il mondo Cristiano non è addormentato? Se no, da dove viene tutta questa presunzione di una propria giustizia, di autoindulgenza, da dove viene quell’amore per le ricchezze che regna ovunque? Oltre tutto, da dove viene quella preponderante cupidigia per i piaceri dei sensi, che trabocca in questa nazione peccatrice, al punto che se uno straniero pio venisse tra noi sarebbe tentato di credere che qualche dio pagano è venerato in questo paese, e che i templi siano stati dedicati al suo servizio? Ma abbiamo l’autorità di un apostolo ispirato, che afferma che coloro i quali vivono nei piaceri della carne, “benché vivi, sono morti”. Perciò, come dice lo Spirito Santo, “Risvégliati, o tu che dormi, e risorgi dai morti, e Cristo ti inonderà di luce” (Efesini 5:14). Ma il potere di far risorgere coloro che sono spiritualmente morti appartiene soltanto a Dio. Tu, dunque, o Santo Gesù, che per la Tua Parola onnipotente comandasti a Lazzaro di venire fuori, sebbene egli giacesse nella tomba già da alcuni giorni, parla anche con la stessa potenza a queste anime spiritualmente morte, che Satana ha tenute legate per tanti anni ai piaceri materiali, in modo che non potessero alzare i loro occhi o i loro cuori al cielo.
Passiamo ora al secondo argomento che mi ero proposto di trattare, e cioè considerare il dovere universale e la ragionevolezza di questa dottrina dell’abnegazione.
Quando il nostro benedetto Maestro parlava pubblicamente delle cose concernenti la cura e l’attenzione degli amministratori fedeli e saggi, i Suoi discepoli gli chiesero perché parlasse alla gente in parabole. La stessa domanda credo sia stata e sarà posta ancora per questa dottrina, poiché troppi sono avversi a prendere il giogo leggero di Cristo su di loro, e cercano di evadere ai precetti del Vangelo, pretendendo che tutti quegli insegnamenti riguardanti l’abnegazione, e il rinunciare a se stessi e al mondo siano stati dati solo per i primi seguaci del Signore, e non per noi o per i nostri figli. Ma tali persone errano grandemente, non conoscendo le Scritture, né la potenza della grazia nei loro cuori. Perché la dottrina di Gesù Cristo, come Lui, è la stessa “ieri, oggi e in eterno” (Ebrei 13:8). Ciò che ha detto a uno, lo ha detto a tutti (Marco 13:37), a tutto il mondo. “Diceva poi a tutti: Se uno vuol venire dietro a me, rinunzi a sé stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua”. È particolarmente significativo che in questo verso è detto che Egli parlava a TUTTI. E a meno che non vogliamo ancora immaginare assurdamente che la parola “tutti” fosse riferita solo agli apostoli, è anche detto altrove che Gesù si rivolse alla folla e parlò; “Or grandi folle andavano a lui, ed egli si rivolse loro e disse: Se uno viene a me e non odia suo padre e sua madre, moglie e figli fratelli e sorelle e perfino la sua propria vita, non può essere mio discepolo” (Luca 14:26). Quando il nostro benedetto Signore raccontava una certa parabola, “i capi dei sacerdoti e i farisei, udite le sue parabole, si avvidero che parlava di loro. E cercavano di prenderlo…” (Matteo 21:45). E se i Cristiani ora possono leggere questi chiari brani delle Scritture, e al tempo stesso pensare che non sono rivolti a loro, vuol dire che i loro cuori sono più induriti di quelli degli ebrei di allora, e più falsi di quelli dei farisei.
Nella prima parte di questo discorso ho osservato che i precetti concernenti la rinuncia e l’abbandono di ogni cosa, non ci obbligano in senso letterale, perché lo stato della chiesa non ce lo richiede come invece accadeva per i primi Cristiani; ma, oggi come allora, con la stessa assoluta necessità, ci chiede di essere “morti” al mondo, di astenerci dal vivere nei suoi piaceri, e di essere sempre pronti ad abbandonare ogni cosa per Cristo. Perché quand’anche la chiesa possa essere stata diversa nei secoli esteriormente, la sua purezza interiore era, è, e sarà sempre invariabilmente la stessa. E tutti gli insegnamenti che troviamo nelle epistole riguardanti il “mortificare le nostre membra che sono sulla terra, riporre i nostro affetto nelle cose che sono in alto, e il non conformarci a questo mondo”, sono tutte prove inconfutabili che la stessa santità, lo stesso avere la mente alle cose di sopra, lo stesso essere morti al mondo, è necessario per noi come lo era per i primi servitori del Signore.
Ma oltre a questo, se una tale obiezione implica un’ignoranza delle Scritture, così pure è una prova manifesta del fatto che tali uomini non hanno sperimentato la potenza della grazia nei loro cuori. Perché se la forma e la sostanza della religione consiste nel recuperare il nostro primiero stato in Adamo, mediante una nuova nascita in Cristo Gesù, c’è un’assoluta necessita per noi di abbracciare e praticare l’abnegazione di cui abbiamo parlato. Se siamo vivi in Dio, saremo morti a noi stessi e al mondo. Se tutte le cose che appartengono allo Spirito vivono e crescono in noi, tutte le cose che appartengono al vecchio uomo devono morire in noi. Dobbiamo pentirci prima di poter essere confortati, e ricevere lo spirito di servitù prima di essere benedetti con l’ineffabile privilegio dello Spirito di adozione, mediante il quale gridiamo: “Abbà! Padre!” (cfr. Romani 8:15).
Se fossimo davvero in uno stato di innocenza, e se avessimo, come Adamo prima della sua caduta, l’immagine della divinità pienamente sulle nostre anime, allora non avremmo bisogno di abnegazione; ma dato che siamo creature cadute e abbiamo una natura perversa, disordinata, con la presunzione di essere giusta, dobbiamo necessariamente rinnegare noi stessi (e accettarlo come un privilegio) dopodiché potremo seguire Gesù Cristo nella gloria. Rigettare una dottrina così salutare con la scusa della difficoltà di metterla in pratica all’inizio, è come l’ostinatezza di un figlio malato che nauseato rifiuta la medicina porta da un bravo medico o un genitore amorevole, solo perché non è piacevole al palato.
Se qualcuno tra noi avesse visto Lazzaro quando stava alla porta del ricco, pieno di ulcere (cfr. Luca 16:19), oppure Giobbe quando fu colpito da un’ulcera maligna dalla pianta dei piedi alla sommità del capo (cfr. Giobbe 2:7), e avessimo dato loro una medicina per guarirli, se non avessero accettato di applicarla alle loro ferite, non avremmo pensato a ragione che essi dovessero essere felici di avere quelle ulcere, o che non provassero alcun dolore per le loro malattie? Ma le nostre anime, per natura, sono in una situazione infinitamente più deplorevole dei corpi di Giobbe o di Lazzaro, che erano coperti di ulcere e bolle, poiché: “Tutto il capo è malato, tutto il cuore è languente. Dalla pianta del piede fino alla testa non c’è nulla di sano in esso: non ci sono che ferite, contusioni, piaghe aperte, che non sono state ripulite, né fasciate, né lenite con olio” (Isaia 1:5-6). E se non siamo disposti a rinnegare noi stessi, e seguire Gesù Cristo per essere curati, è un segno che non siamo sensibili allo squallore della nostra condizione, e che non siamo veramente nati di nuovo.
Anche i servi di Naaman, quand’egli si rifiutò di lavarsi nel fiume Giordano secondo gli ordini che Eliseo aveva dato perché fosse guarito dalla lebbra, dissero: “Padre mio, se il profeta ti avesse ordinato una cosa difficile, tu non l’avresti fatta? Quanto più ora che egli ti ha detto: ‘Làvati, e sarai guarito’?” (2 Re 5:13). E non posso io rivolgermi a voi alla stessa maniera, miei fratelli e sorelle? Se Gesù Cristo, il nostro grande profeta, vi avesse chiesto di fare una cosa molto più difficile, non l’avreste fatta? Quanto più dovreste farla se vi chiede solo di rinunciare a voi stessi per quanto riguarda le cose che certamente ci indurrebbero nel peccato se le praticaste, e se vi ha promesso la corona della vita.
Ma per usare un paragone, nel libro degli Atti al capitolo 12 leggiamo che “Pietro era custodito nella prigione”, “dormiva in mezzo a due soldati, legato con due catene; e le guardie davanti alla porta custodivano la prigione”; “ed ecco, un angelo del Signore sopraggiunse e una luce risplendette nella cella; e, percosso il fianco di Pietro, lo svegliò, dicendo: ‘Alzati in fretta!’. E le catene gli caddero dalle mani” (Atti 12:5-7). Ma se questo grande apostolo, anziché alzarsi in fretta e fare come gli aveva ordinato l’angelo, avesse stretto a sé le catene e lo avesse implorato di non farle cadere dalle sue mani, non avreste pensato che fosse contento di essere in schiavitù, e di essere destinato ad essere ucciso il mattino seguente? E la persona che rifiuta di rinnegare se stesso non agisce forse in modo incoerente come sarebbe stato per l’apostolo se avesse rifiutato di essere liberato? Poiché le nostre anime, per natura, sono in una prigione spirituale, dormono e sono legate tra il mondo, la carne e il diavolo, non con due ma con diecimila catene di passioni e corruzioni. Ora Gesù Cristo, come l’angelo apparso a san Pietro, per il potere del Suo Vangelo viene ad aprire la porta della prigione, e ti chiede di “rinunciare a te stesso e seguirlo”. Ma se non ci alziamo, cingiamo i fianchi della nostra mente e lo seguiamo, non è allora vero che amiamo essere in schiavitù e non meritiamo di esserne mai liberati?
Certo non affermo che questa dottrina dell’abnegazione appaia nella giusta luce a tutti. No, so che per l’uomo naturale è follia, e per i giovani convertiti è un “parlare duro”. Ma cosa dice il nostro Salvatore? “Se uno vuol fare la volontà di lui, conoscerà se questa dottrina è da Dio o se io parlo di mio” (Giovanni 7:17). Questa, miei cari amici, è la migliore e unica via per convincersi. Alziamoci presto dunque e rinunciamo a noi stessi, e il Signore Gesù toglierà quelle scaglie dagli occhi delle nostre menti, che ora, come tanti veli, ci impediscono di vedere chiaramente la ragionevolezza, la necessità, e gli inesprimibili benefici del praticare la dottrina che è stata predicata. Comportiamoci dunque “virilmente” (cfr. 1 Corinzi 16:13), e lo Spirito di Dio si muoverà sulle nostre anime come fece un tempo sulla superficie delle grandi acque; e le farà emergere da quel caos e confusione nei quali certamente si trovano, se siamo stranieri e nemici dell’abnegazione e della croce di Cristo.
Procediamo dunque adesso al terzo e ultimo argomento da trattare, e cioè offrire alcune considerazioni che possano aiutarci a riconciliarci e a praticare con zelo il dovere dell’abnegazione.
E la prima cosa che vi raccomando di fare, per riconciliarvi con questa dottrina, è meditare frequentemente sulla vita del nostro benedetto Signore e Maestro Gesù Cristo. Seguitelo dalla culla alla croce, e guardate che vita di abnegazione ebbe! E non berremo noi del calice che Egli bevve, e non saremo noi battezzati del battesimo di cui Egli fu battezzato? O pensiamo che Gesù Cristo fece e soffrì ogni cosa per darci una scusa per non dover passare per le sofferenze? No, lungi da ogni Cristiano sincero giudicare in questa maniera: poiché san Pietro ci dice: “Cristo ha sofferto per noi, lasciandoci un esempio, affinché seguitate le sue orme” (1 Pietro 2:21). Se Cristo, infatti, come gli scribi e i farisei che sedevano alla cattedra di Mosè, avesse legato i pesi pesanti dell’abnegazione (supponendo che siano pesanti) e li avesse messi sulle nostre spalle, ma Egli stesso non li muovesse neppure con un dito (cfr. Matteo 23:2-4), potremmo avere avuto qualche pretesto per lamentarci: ma dal momento che non ci ha comandato nulla che non abbia messo in pratica Lui stesso per primo, siete inescusabili, voi discepoli, chiunque voi siate, che volete essere superiori al vostro Maestro che fu perseguitato e visse nell’abnegazione; e non sei un buon e fedele servitore, tu che non accetti di soffrire e di simpatizzare con il tuo Signore mortificato e il cui sguardo era sempre volto alle cose dei cieli.
Oltre alla vita del nostro benedetto Signore, pensate spesso alle vite e alla gloriosa compagnia degli apostoli, la santa compagnia dei profeti, la nobile armata dei martiri: che per aver guardato costantemente all’autore e compitore della nostra fede, hanno combattuto il buon combattimento, e ci hanno preceduti nell’ereditare le promesse. Guardate ancora e ancora, quanta santità, quale abnegazione, e vite irreprensibili vissero. E se l’abnegazione era necessaria per loro, per quale motivo non dovrebbe esserlo anche per noi? Non siamo uomini soggetti alle loro stesse passioni? (cfr. Giacomo 5:17) Non viviamo nello stesso mondo malvagio in cui vivevano loro? Non abbiamo lo stesso buono Spirito che ci assiste, ci sostiene, e ci purifica, come fece con loro? E non ci è toccata la stessa eredità che il Signore diede loro? E se abbiamo la stessa natura che va cambiata, lo stesso mondo malvagio da cui fuggire e resistere, lo stesso buono Spirito che ci aiuta, e la stessa corona eterna come fine, perché non dovremmo vivere le stesse vite che vissero loro? Pensiamo che le loro opere furono eccessive? Se no, perché non facciamo come fecero loro? O perché commemorare la morte e le sofferenze dei santi, se non per invogliarvi a seguire Cristo come fecero loro?
Come terza cosa, pensate spesso alle sofferenze dell’inferno; considerate se non sia meglio tagliarvi un piede o una mano, o un occhio, se sono per noi causa di peccato, piuttosto che essere gettato “nel fuoco inestinguibile, dove il loro verme non muore e il fuoco non si spegne” (Marco 9:43 e segg.). Pensate a quante migliaia di spiriti dannati sono ora tenuti in catene di oscurità per il giudizio del grande giorno. E considerate dunque, che questa, questa sarà la vostra fine tra breve tempo, a meno che non rinsavite in tempo, rinunciando a voi stessi, e seguite Gesù Cristo. Pensate che ora essi ritengano Gesù Cristo un Maestro duro? Non pensate piuttosto che darebbero qualunque cosa pur di ritornare in vita, e prendere il giogo leggero di Cristo su di sé? E riusciremo noi a vivere nelle fiamme eterne più di quanto possano sopportare loro? No, se non riusciamo ad accettare questo precetto, rinnegare noi stessi, e prendere le nostre croci; come faremo a sopportare quella sentenza irrevocabile: “Andate via da me maledetti, nel fuoco eterno che è stato preparato per il diavolo e per i suoi angeli” (Matteo 25:41) ? Ma io spero che coloro tra i quali sto predicando il Regno di Dio, non siano così disonesti da dover essere guidati al loro dovere mediante i terrori del Signore, ma desiderino piuttosto esservi guidati dal vincolo dell’amore.
In ultimo, dunque, meditate spesso sulle gioie del regno dei cieli: pensate, pensate di quale gioia ineffabile quelle anime felici sono ora circondate, le anime di coloro che sulla terra furono chiamati, come noi, a rinnegare se stessi, e non furono disobbedienti da non ascoltare quella chiamata: innalzate spesso i vostri cuori verso il regno della felicità eterna e, con gli occhi della fede, come Stefano, guardate i cieli aperti, e il Figlio dell’uomo con il Suo seguito glorioso di santi risorti, seduti e consolati nella gioia eterna. Ascoltate! Mi pare quasi di sentirli cantare le loro lodi eterne al Signore, e di udire l’eco dei canti di gioia. E non desiderate anche voi, miei fratelli e sorelle, unirvi a questo coro celeste? Non ardono i vostri cuori dentro di voi? Come la terra arida anela ai rivi d’acqua, non anelano le anime vostre alla benedetta compagnia di questi figli di Dio? Ecco allora, una scala celeste viene calata davanti a voi; mediante essa potete salire al monte santo. Crediamo al Signore Gesù Cristo, e rinneghiamo noi stessi! Solo così, ogni santo che è mai vissuto è asceso nella gioia del suo Signore. E dunque, noi, anche noi saremo portati nello stesso beato regno, dove vivremo eternamente un riposo con il popolo di Dio, e ci uniremo a loro nel cantare canti e inni di lode e adorazione, all’eterna, benedetta, gloriosa, meravigliosa Trinità, per i secoli dei secoli.
Concedici quello che ti chiediamo o Padre, per amore di Gesù Cristo, al quale, con te e con lo Spirito Santo, siano onore e gloria, ora e in eterno. Amen.
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