PERCHÉ HAI CREDUTO E VUOI CREDERE IN DIO?
Ciò in cui l’uomo crede è per lui di grande importanza, poiché questa fede ridà un significato alla sua vita altrimenti caratterizzata da ciò che egli vuole non sopporta: vuoto, mancanza di affermazioni, colpa, insuccesso nell’avere e nel ricambiare amore e affetto. Ciò in cui l’uomo ora crede può riguardare un grande amore che deve realizzare, o una grande missione che vorrebbe portare a termine, o un grande odio che deve giustificare e tradurre in atto. Si vuole credere in Dio perché si pensa che la fede abbia a che fare con qualche sofferenza ingiusta che Egli deve vendicare, oppure con la propria persecuzione che Egli deve denunciare apertamente.
L’obiettivo dell’uomo è ricercare il potere, l’apparenza, l’apparire agli occhi degli altri, essere qualcuno o qualcosa, senza comunque avere l’intenzione di concentrarsi su Dio, ma a sé stessi, di essere accettati dagli altri e – diciamo – venerati dagli altri.
Si vuole essere affaccendati in modo molto impegnativo: per poter vivere meglio organizzano la vita a scapito della vita. Fanno progetti a lungo termine, e si vogliono presentarli a Dio affinché li adempi. Eppure Dio dice sempre che i Suoi pensieri non sono i nostri pensieri, le Sue vie non sono le nostre vie, i Suoi progetti non sono i nostri progetti. Ma si preferisce avvicinarsi a Dio esclusivamente per il benessere e per ambizioni.
La maggior parte dei cristiani che dichiarano di credere in Dio non riescono tuttavia a realizzare che Egli sia il fine e il centro di tutta l’esistenza dell’uomo. Il cristiano tende quindi a “usare” Dio per raggiungere il fine di cambiare sé stesso, nel modo ritenuto migliore. Se si è cristiani principalmente perché si desidera essere cambiati, è un problema molto serio. Se abbiamo dato tutta la nostra vita a Dio soprattutto perché siamo stanchi di noi stessi e vogliamo essere un’altra persona, questo stà ad indicare che stiamo soltanto usando il nome di Dio per farci mettere a posto, per avere una identità che nel mondo non si è riusciti a trovarla, cercando di servire Dio con questo fare e fare e strafare, autoconvincendosi che tanto Dio accetta il servizio anche di coloro che sono poco “capaci”, senza però rendersi conto che si offrono “sacrifici” che a Dio non sono assolutamente graditi.
Gli angeli si stupiscono per le preoccupazioni e le ansie presenti in quelli che affermano di credere in Dio. Per loro deve essere così degradante, un insulto a Dio, il fatto che si preoccupano.
Gli angeli pensano che il vero cristiano non ha obiettivi personali, e nessun’altra ragione di esistere se non quello di relazionarsi con Dio, aspettare e realizzare la volontà divina.
Il fine della fede in Dio non deve essere la ricompensa, ma solo il credere in Dio, l’avere fiducia in Dio, adorare Dio, amare Dio.
Oggi, invece, dietro ad ogni forma di adorazione e di ubbidienza c’è, anche se nascosta, un secondo fine. Lo sguardo non è più rivolto a Cristo ma ai Suoi doni. Non Lo adoriamo più per chi Egli è, ma crediamo e Lo adoriamo solo perché c’è una ricompensa. Oppure, spesso c’è la volontà di umiliarci perché “chi si umilia sarà innalzato”, e perciò vogliamo essere innalzati.
Chi vuole credere in Dio ha capito che le cose di questa terra sono vane ed effimere, sono solo per un tempo, e hanno finalmente trovato ciò che veramente potrà soddisfare la loro fama di potere, di successo e di soddisfazione.
L’uomo quindi crede che Dio operi esclusivamente in base ai propri desideri, alle proprie necessità, che ritiene un diritto ricevere da Dio quello di cui ha bisogno per diventare quello che vuole essere. Molti uomini, pieni di orgoglio, hanno il pensiero che Dio sia obbligato a rispondere a tutte le richieste, sempre e subito, e quando questo non avviene cadono in depressione, sono terrorizzati, si sentono abbandonati da Dio. Soffrono realmente, ma non per causa di una prova particolare, ma a causa della loro immaturità.
Spiritualmente parlando sono come un bambino capriccioso, che non vedendo raccolte le proprie richieste e realizzato il proprio sogno, piange urla e strepita.
Essendo delusi dal mondo, vogliono credere in Dio perché, non riuscendo ad ottenere ciò che desiderano avere, si rivolgono a Lui perché, per amore, dona. Egli è Colui che è in grado di realizzarli.
Vanno a Dio come se Egli fosse una specie di parente ricco, che può assisterli e donare tutto quello che loro mendicano, mentre non alzano neanche un dito. Si aspettano che le preghiere muovano Dio a lavorare per loro, mentre siedono pigramente pensando in sé stessi: “Egli è onnipotente; io sono nulla, quindi devo semplicemente attendere”. Vogliono Dio nella loro vita, ma lo vogliono per avere un aiuto, o persino la liberazione, per le prove e le difficoltà di questo mondo, e risoluzione ai problemi di vario genere, senza mai voler comprendere che questi guariscono dalla superficialità, dall’egoismo, dall’egocentrismo, e servono per la propria crescita e per diventare ad immagine di Gesù Cristo.
Dio quindi è male rappresentato verso il mondo. Abbiamo fatto in modo che gli empi Lo identificassero con la prosperità, il denaro, il successo. Abbiamo ingannato i poveri dicendogli che Dio farli ricchi, e abbiamo anche detto agli ammalati che stavano soffrendo a causa della loro mancanza di fede.
Una fede vera non dovrebbe forse rimanere in piedi anche senza alcuna “siepe”? Non dovrebbe essere in tal senso una fede per nulla?
E la risposta non è che sì, è possibile la fede per nulla; che anzi solo quando essa è per nulla si tratta di fede vera. La vera fede (timore di Dio) è quella che rimane ferma anche quando all’uomo è tolto tutto: patrimonio, affetti, e soprattutto salute. Il libro di Giobbe intende rispondere alla domanda: è possibile la fede anche a fronte della sofferenza?
I momenti di sofferenza sono i momenti decisivi in cui noi la vita viene plasmata e data una forma.
Il seme contiene in sé il principio di morte e di vita perché deve morire, venir meno, per poter vivere e svilupparsi. È la legge essenziale dell’evoluzione spirituale e umana: perché Cristo nasca bisogna che io, che il nostro io, muoia.
Attraverso la sofferenza c’è la consapevolezza di non essere assoluto, di non credersi un dio a cui tutto è permesso. Diventa consapevole della fallibilità di ogni calcolo e dell’insicurezza di ogni progetto.
La fede, non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù, con i Suoi occhi: è una partecipazione al Suo modo di vedere.
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