L’Intimita’ con Dio nell’Era della Distrazione

 

Esiste una visione romantica della solitudine che spesso trova eco tra i cristiani. Pensiamo che se avessimo il tempo e lo spazio per ritirarci per un po’, sperimenteremmo pace e felicità. Ma la realtà è spesso molto più dura e complessa. Nella solitudine cerchiamo Dio, ma la prima cosa che incontriamo è noi stessi.

Il vero te si mostra, con tutti i suoi attributi imbarazzanti. Fru­strato dalla vita e stanco di mangiare compulsivamente cibo spazzatura? Appesantito dalla vergogna di una dipendenza dalla pornografia o dalle medicine? La solitudine spesso ci costringe a guardare in faccia queste sofferenze e ci fa fare i conti con una triste realtà: ci piace la nostra frenesia. Ci piace il caos della no­stra vita. Ci piace perché ci distrae da noi stessi.

La solitudine con Dio ha una curva di apprendimento. È una pratica che incarniamo e, come ogni cosa che vale la pena fare, i nostri primi sforzi saranno sofferti. Il “terrore del silenzio” (come lo chiamava il saggista statunitense David Foster Wal­lace) ci tenterà lontano dalla quiete.

Desidereremo l’e-mail, le liste di cose da fare, un lavandino pieno di piatti, i messaggi non letti sul nostro telefono, qualsiasi pretesto che possa disto­gliere l’attenzione da quel qualcosa che sta tranquillamente ri­bollendo, che rende la solitudine così inquietante.

Per questo motivo pratichiamo la solitudine come un vio­linista principiante; ci esercitiamo male. Ma la scarsa pratica, segnata da una mente errante e irrequieta, non è una cattiva pratica. Affrontata con una certa regolarità, può arricchire la nostra vita.

Possiamo scoprire uno spazio nel cuore e nel nostro mondo in cui il Signore ci incontra. Come vedremo, è l’inizio della fine dei nostri sforzi religiosi, un’occasione per affrontare sia la realtà della nostra povertà spirituale sia la ricchezza delle be­nedizioni spirituali di Dio.

La Bibbia paragona spesso la relazione di Dio con il Suo po­polo con quella di un innamorato, di un marito con la sua amata. Dio è l’innamorato; noi siamo oggetto del Suo amore. Dei coniugi innamorati condividono più della loro intimità fisica; condividono i loro segreti, il loro passato, i desideri e le delusioni. Nulla farà cessare una relazione più rapidamente del tradimento di quella fiducia. Abbiamo bisogno di uno spa­zio per un’intimità simile con Dio. Abbiamo bisogno di uno spazio nella nostra vita per storie ed esperienze che si intrec­ciano unicamente tra Lui e noi.

Perciò dobbiamo proteggere i confini della nostra solitu­dine con un’altra disciplina, quella che definiremo la pratica dell’intimità. Ci sono aspetti della nostra vita spirituale che devono rimanere intimi e privati, tra noi e Dio soltanto, senza ostentazioni o spetta­colarizzazioni.

La nostra vita spirituale è come unfuo ­co tenuto acceso nel focolare di una piccola casa di campagna. Quando la porta è chiusa, il fuoco riscalda l’intero spazio. Ogni volta che la porta si apre, il calore fuoriesce e alla fine l’intera stanza si raffredda. Ci sono momenti per aprire la porta, tempi per invitare gli altri e condividere le cose che abbiamo imparato e vissuto, ma sono l’eccezione, non la regola. In un mondo ca­ratterizzato da una costante voglia di visibilità, molti di noi non hanno mai chiuso la porta. Ogni esperienza spirituale è qual­cosa che vogliamo a tutti i costi esporre, condividere e trasmet­tere. Ogni momento di silenzio è interrotto dal rumore, dai messaggi e dall’intrusione di altri. Desideriamo ardentemente una maggiore profondità e una reale intimità, ma non ci ren­diamo conto dei piccoli modi in cui la stiamo mettendo al bando dalla nostra vita.

Quando Gesù insegnò ai suoi discepoli a pregare, disse:

“Quando pregate, non siate come gli ipocriti; poiché essi amano pregare stando in piedi nelle sinagoghe e agli angoli delle piazze per essere visti dagli uomini. Io vi dico in verità che questo è il premio che ne hanno. Ma tu, quando preghi, entra nella tua cameretta e, chiusa la porta, ri­volgi la preghiera al Padre tuo che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa” (Mat­teo 6:5, 6).

L’impulso di vivere la nostra vita spirituale mettendola perennemente in mostra, non rappresenta certamente una novità. Gesù ci avverte che vivere in questo modo significa “avere il nostro premio”. Se stai pregando perché vuoi essere stimato dalle persone che ti vedono pregare, questo è tutto il beneficio che potrai ricevere. Se vuoi cercare Dio, devi presentarti a Lui e pregare “nel segreto”.

Gesù incarna entrambi questi momenti e ci invita alla pratica della solitudine con Dio, dell’intimità e della discrezione: fare le cose in segreto, senza ostentazione. Queste sono discipline che si traducono in un momento in cui ci si ritrae dal mondo, un modo di creare uno spazio in vista di una relazione veramente intima e personale con Dio.

Sono giunto a chiedermi se oggi queste non sono le disci­pline chiave per vivere la vita cristiana. Sono quasi certamente il punto di partenza. Alcuni potrebbero trovare questo pen­siero strano. Perché non la preghiera? Perché non leggere o meditare le Scritture? La ragione è che abbiamo bisogno di coltivare e proteggere quel “retroterra nascosto” in cui la nostra fede può essere nutrita e alimentata. Abbiamo bisogno di spez­zare le abitudini di visualizzazione e messa in mostra di sé, e scoprire che cosa significa essere soli con Dio. Altrimenti, le discipline spirituali diventano soltanto un altro modo di esi­birsi a beneficio di una folla virtuale, alla spasmodica ricerca di “mi piace” e del numero di visualizzazioni avute.

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