In Iraq e Siria la guerra è di religione
Perché allora non definire il conflitto in atto una guerra di religione? Siamo forse così schiacciati dal peso delle parole e delle convenzioni ipocrite che ci siamo autoimposti negli ultimi 40 anni nel nome della correttezza politica da non riuscire a pronunciarle per paura di dover affrontare la realtà? Dopo 13 anni abbiamo già rimosso tutte le lezioni apprese dallí11 settembre 2001 per paura di dover accettare le conseguenze di una guerra che è inevitabilmente, come lo sono state molte delle più grandi e lunghe guerre dellíumanità, uno scontro di civiltà. Inutile fingere di meravigliarsi. La guerra di religione, lo scontro tra sunniti e sciti, era un obiettivo dichiarato di Osama bin Laden e di Musayb al-Zarqawi, leader di al-Qaeda in Mesopotamia, organizzazione jihadista che ha poi originato líIisis e oggi lo Stato Islamico. Anche líeliminazione fisica delle minoranze come cristiani e yazidi rientra da sempre nei programmi pubblicamente annunciati dai jihadisti e del resto le violenze contro i cristiani in Iraq (e in tutto il mondo sunnita) e il loro esodo da Mosul non sono certo cominciati il mese scorso. Così come non sono certo iniziate con líuccisione di James Foley le barbare esecuzioni di ostaggi occidentali da parte di militanti islamici.
Ne abbiamo visti tanti di video del genere negli anni scorsi ma li abbiamo rimossi imponendoci di credere che fossero la risposta ìallíimperialismo di George Bushî invece che una dimostrazione di odio, un atto di guerra nei confronti nostri e della nostra civiltà. Che líIslam sia un problema per il mondo intero è sotto gli occhi di tutti, soprattutto perché se gli estremisti si notano benissimo, i cosiddetti ìmoderatiî sembrano avere voce flebile. Eppure, come ha evidenziato Massimo Introvigne, l’Occidente è pieno di studiosi dellíIslam pronti a sostenere interpretazioni buoniste e introspettive della parola ìjihadî. LíEuropa finge di accorgersi solo oggi che ci sono islamici che sterminano cristiani per non dover fare i conti con la sua coscienza e con il dovere di armarli o difenderli con le sue potenti, deboli armi: potenzialmente devastanti e tecnologicamente avanzate, ma inutili perché non abbiamo il coraggio di impiegarle né soprattutto ideali per i quali riteniamo necessario combattere.
Abbiamo perso a tal punto ogni senso díappartenenza nazionale e culturale da non trovare un solo motivo, valore o interesse per cui valga la pena fare una guerra? Se è così líIs ha già vinto perché i suoi miliziani (che sono sempre di più anche in Europa) sono pronti a uccidere e morire per la loro causa. Eppure sarebbe sufficiente leggere, líarticolo di Luigi Santambrogio sui jihadisti in Europa per comprendere che dobbiamo svegliarci e anche in fretta. Come ha sottolineato sabato Edward Luttwak in uníintervista a Il Giornale, líopinione pubblica in Italia e in Europa si è mobilitata per i civili palestinesi di Gaza ma non si è contata neppure una manifestazione per i cristiani iracheni. Merito certo di decenni di cultura terzomondista e di relativismo culturale ma anche un sintomo evidente di come le leadership e i popoli occidentali non abbiano neppure la percezione di quali siano gli interessi strategici da difendere.
Certo gli Stati Uniti possono avere molti vantaggi a ìgiocare sporcoî anche in questa crisi per favorire il caos nelle aree energetiche nel momento in cui si avviano diventare il più grande esportatore di gas e petrolio. Ma noi europei di quel gas e petrolio in Medio Oriente e Nord Africa abbiamo e avremo bisogno: non possiamo permetterci di non avere una strategia, di non combattere o di non scegliere da che parte stare. Eppure proprio questo stiamo facendo, favorendo líaffermazione dei jihadisti dalla Libia allíIraq, come se la questione non ci riguardasse. Per questo oggi non armiamo i cristiani iracheni e aiutiamo i curdi così blandamente da risultare ininfluenti, con líossessione di non irritare Baghdad e Ankara che temono un Kurdistan indipendente. Al tempo stesso esitiamo a mobilitarci contro líIs per non irritare le monarchie sunnite del Golfo che hanno investito centinaia di miliardi di dollari in Europa e oggi influenzano in modo sempre più imbarazzante la nostra politica estera.
Fingiamo così di non sapere che la Turchia, nostro alleato nella Nato, è anche il Paese che ha ospitato e fornito aiuti alle milizie jihadiste dellíattuale Stato Islamico per sostenerle nella guerra contro il regime siriano. Cosa che abbiamo fatto anche noi europei insieme agli americani ponendoci in antagonismo alla Russia, unico grande Paese rimasto a difendere la cristianità e i valori occidentali contro líislamismo. Meno di un anno or sono Washington e alcuni alleati europei erano pronti a bombardare Damasco per abbattere Bashar Assad come avevano abbattuto Muammar Gheddafi spianando la strada ai jihadisti. Oggi in Libia qaedisti e Fratelli Musulmani stanno vincendo grazie anche al disinteresse dellíEuropa e dellíItalia mentre in Siria rifiutiamo di riconoscere i nostri errori aiutando Assad a combattere líIs. Non perché il regime siriano sia composti da cherubini ma semplicemente perché è nei nostri interessi farlo e perché in Medio Oriente e Africa ci conviene fare i conti con regimi laici, anche se non del tutto simili alla democrazia svizzera, piuttosto che con Emirati e Califfati che decapitano e torturano gli infedeli.
Nella storia il pragmatismo ha sempre indotto gli Stati a modificare alleanze e schieramenti, sport in cui líItalia è stata ìmaestraî nei due conflitti mondiali fino al tradimento del Trattato di amicizia con Gheddafi nel 2011. Basti ricordare che la Seconda guerra mondiale iniziò nel 1939 con i sovietici che si spartivano la Polonia con gli alleati tedeschi e termino con líArmata Rossa che occupava Berlino. Allora però cíerano statisti a guidare le nazioni non gli improvvisati di esile spessore che guidano oggi le cancellerie europee. Il realismo militare impone di valutare che solo i curdi e le truppe siriane sono in grado di fermare lo Stato Islamico. L’esercito iracheno è allo sbando, non regge il campo di battaglia mentre nessun Paese occidentale sembra intenzionato a mandare i suoi soldati a combattere i jihadisti. Come hanno sottolineato esponenti militari a Londra e Washington la guerra non si vince se non si combattono le forze di Abu Bakr al-Baghdadi anche in Siria. «L’Is deve essere sconfitto in Iraq e in Siria prima che si espanda in tutta la regione», ha detto Lord Dannatt ex capo di stato maggiore dellíesercito britannico. Infatti la gran parte dei mezzi pesanti catturati dai jihadisti falle truppe irachene sono stati portati nelle basi in Siria strappate allíesercito di Assad, al riparo dai cacciabombardieri americani. In questi giorni jet americani, iracheni e siriani hanno bombardato le milizie dellíIs, ma lo hanno fatto in ordine sparso, senza coordinamento e in settori diversi esercitando così una pressione limitata sui jihadisti. Abu Bakr al-Baghdadi ringrazia.
di Gianandrea Gaianni
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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