“…questo è il mio comandamento:che vi amate gli uni gli altri come io vi ho amati. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici…” (Giovanni 15:9-17)
L’esigenza fondamentale per il cristiano oggi, è quella di portare frutto.
La vigna di Dio non può essere una vigna decorativa, ornamento del paesaggio urbano, bella a vedersi, messa li come oggetto d’ammirazione. DEVE FARE MOLTO FRUTTO.
La Chiesa, vigna di Dio, non possiede in se stessa la giustificazione. La sua ragione d’essere sono quei frutti che il proprietario attende da essa. La sua giustificazione è data dal vantaggio che ne ricava l’uomo, “voi avete per frutto la vostra santificazione, e per fine la vita eterna” (Romani 6:22).
Oggi più che mai viene precisato in che cosa consiste esattamente “portare frutto”. Nel linguaggio di Giovanni, come in tutta la parola del Signore, frutto non significa genericamente “opere buone”. Il termine ha una collocazione ben definita: sono i frutti d’amore, carità. Così in Galati 5:22; Efesini 5:9.
Ossia, chi vive nel Cristo deve recare frutti di bontà, giustizia, pace.
L’Amore costituisce l’impegno fondamentale del cristiano.
Se il cristiano si rivela incapace d’amare è un fallito. Se la Chiesa non appare come testimone credibile di carità, di giustizia e d’amore, è una vigna sterile.
La presenza in noi delle parole di Cristo Gesù “Se dimorate in me e le mie parole dimorano in voi” (Giovanni 15:7), non possono avere altro sviluppo se non in amore fraterno.
Non è altro che questo portare frutto.
La parola di Dio è come un seme che, penetrando nel cuore dell’uomo, è destinata a germogliare, crescere e “portare frutti al centuplo” (Marco 4:20).
Frutti di misericordia, perdono, generosità, abnegazione, comprensione, impegno a favore dei fratelli e non, capacità di compromettersi per i fratelli più semplici e deboli, per gli oppressi e per quelli che vengono spesso dimenticati.
In questa parte del Vangelo che oggi, alla gloria di Dio, vi propongo parte trattata dal discorso d’addio di Gesù, voglio mettere in evidenza il martellamento costante e inquietante di frasi, dettate da Gesù, che precisano il compito fondamentale del cristiano.
“Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi; Dimorate nel mio amore. Se osservate i miei comandamenti, dimorerete nel mio amore; come io ho osservato i comandamenti del Padre mio, e dimoro nel Suo amore” (vv.9-10).
Ciascuna delle frasi stabilisce un parallelismo tra il Padre e Gesù da una parte, Gesù e i discepoli dall’altra.
La prima frase nomina, successivamente, il Padre, Gesù, infine i discepoli. La seconda segue un movimento inverso.
Abbiamo quindi come una parabola che parte dal Padre e fa ritorno al Padre. L’Amore trova la propria sorgente nel Padre, passa dal Padre nel Cristo, e dal Cristo nei discepoli.
La condizione per “rimanere nell’amore” consiste nell’osservare i comandamenti di Gesù, come Gesù ha osservato i comandamenti del Padre. I comandamenti, poi, si riducono a un comandamento unico, quello che li riassume tutti e rappresenta la sintesi e lo spirito della Legge: l’AMORE.
Quindi i legami che uniscono i discepoli a Gesù, sono analoghi a quelli che uniscono Gesù al Padre. I discepoli custodiscono e rendono pratici i comandamenti di Gesù e sono amati da Lui, così come Gesù custodisce e mette in pratica i comandamenti del Padre ed è amato da Lui.
Al centro, Giovanni colloca il tema dell’allegrezza “Queste cose vi ho detto, affinché la mia allegrezza dimori in voi, e la vostra allegrezza sia resa completa”.
L’allegrezza, dunque, come frutto dell’obbedienza e dell’amore. Il discepolo si caratterizza per l’allegrezza, non per altro. E la sua non è un’allegrezza qualunque o ridotta. È un’allegrezza piena, completa, quella stessa del Maestro, che s’impadronisce della sua vita e irradia da tutta la sua persona.
Ma non basta! Gesù si propone come modello nel compito di amarsi gli uni gli altri “Così anch’io ho amato voi” (v.9).
E Lui ci ha amati “sino alla fine” (Giovanni 13:1).
Che è da intendere non soltanto in senso di fedeltà temporale, ma in termini di intensità; radicalismo, vorrei dire di eccesso: fino al punto estremo, fino al massimo, fino a “DARE LA VITA” per gli amici.
Il suo è stato un amore senza misura, oserei dire in una parola: “Folle – cosciente – cosciente – folle”.
Ho parlato di “martellamento costante e inquietante” di queste frasi.
Personalmente, infatti, non mi sento affatto rassicurato, tranquillo. La mia posizione, tra quelle due realtà implacabili “come il Padre mi ha amato”, e “così anch’io ho amato voi” è tutt’altro che comoda. Mi sento come schiacciato da esigenze tali da togliere il fiato.
Vorrei amare come voglio io, quando stabilisco io e quanto decido io.
Invece quei due “come” – “come il Padre mi ha amato”, e “così anch’io ho amato voi” – mi proiettano in una misura divina, lontanissimo dai miei orizzonti abituali, mi sradicano dai miei programmi di equilibrio per impormi uno stile di “follia – cosciente – cosciente – follia” caratterizzato da eccessi incredibili.
M’illudo di sapere amare e di non aver bisogno di imparare. Credo che l’amore sia qualcosa di naturale, che va da se. Ma quando vengo raggiunto da quel provocatorio “come io ho amato voi” comincio a pensare che l’amore sia una materia piuttosto difficile da imparare, anzi, una possibilità ancora tutta da esplorare. E allorché ci si mette a scuola da quel Maestro, si arriva a rinnegare se stessi, dimenticarsi, perdersi.
Il Cristo ci ha amati NON rimanendo al proprio posto, bensì abbassandosi, svuotandosi, diventando “servo di tutti”.
Io, invece, preferisco un amore che non mi costi troppo in termini di sacrifici e di rinunce. Vorrei amare rimanendo al mio posto, senza scomodarmi eccessivamente, senza privarmi di nessuna delle cose a cui sono attaccato. Mi riesce estremamente difficile “svuotami” uscire da me stesso, dal mio egoismo, dai miei calcoli, dal mio comfort, dai miei programmi, dai miei interessi, per scendere fino all’altro, accorgermi della sua presenza, entrare nel mio problema (come cristiano il suo problema, cioè quello dell’altro è anche il mio problema), impossessarmi della sua sofferenza.
Voglio essere io a decidere chi devo amare, a stabilire chi è degno e chi merita il mio interessamento.
E il Cristo mi fa capire che non devo escludere nessuno, neppure gli antipatici, neppure chi mi ha fatto del male: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figliuoli del Padre vostro che è nei cieli” (Matteo 5:44, Luca 6:27).
Il Maestro insiste a ribadire che non devo essere io a scegliere il prossimo. Il prossimo si presenta come vuole, nel momento meno opportuno, nella maniera meno elegante, con le pretese meno discrete, spesso con la faccia ripugnante.
Beh, sì, sono disposto a dare qualcosa, “specialmente il superfluo”, dopo aver fatto bene i miei conti.
E il Cristo mi spiega che non c’è vero amore se non arriva a “darsi”, ossia a dare se stessi più delle cose. E questo “darsi”, in certe circostanze, può significare “dare la vita per i propri amici”.
Allora mi nasce il dubbio di essere un analfabeta in fatto di amore, anche se questo termine ce l’ho in bocca di frequente. Altro che “più nulla da imparare”. Sono in principiante che ha chiamato amore ciò che era semplicemente egoismo verniciato di buoni sentimenti.
La Croce del Cristo. Il segno dei chiodi. Il tradimento di un amico. La fuga e la vigliaccheria degli altri. Il perdono ai nemici.
Di fronte a tali fatti, il mio amore va in crisi, non oso nemmeno pronunciare quella parola. Amore.
“…Tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15:15). E ancora “Non siete voi che avete scelto me, ma io che ho scelto voi, e v’ho costituiti …” (Giovanni 15:16).
Finalmente delle frasi che mi mettono a mio agio, dopo quelle precedenti che scottavano.
Questo Cristo rivelatore dei segreti celesti mi piace più del Cristo che ha la pretesa che io ami i miei simili o peggio, i nemici, come Lui ci ha amati. In fondo, Gesù viene dall’alto. La Sua condizione di figlio fa si che sia al corrente dei segreti del Padre.
L’idea di una religione che mi permette di penetrare nei misteri più reconditi, di saperne di più degli altri, di essere a parte di confidenze particolari mi affascina.
Mi piace questo rapporto “privilegiato” col Cristo, che mi ammette nella cerchia ristretta degli “iniziati”, nell’élite di coloro che vengono ammessi e messi a parte di rivelazioni sensazionali.
Signore eccomi pronto ad ascoltare la Tua Parola. Sto attento a non lasciarmi sfuggire neppure un brandello delle tue confidenze.
Avanti Signore, parla. Sono disposto a raccogliere e custodire tutti i segreti che vuoi svelarmi. Non tenermi più in sospeso. Siamo tra amici, l’hai detto tu.
“Non vi chiamo più servi; perché il servo non sa quel che fa il suo signore; ma voi vi ho chiamati amici, perché vi ho fatto conoscere tutte le cose che ho udite dal Padre mio” (Giovanni 15:15).
Aspetto con ansia questo “tutto”.
Tutto quello che hai colto dalla bocca del Padre.
“…Questo vi comando: che vi amate gli uni gli altri…”
(Giovanni 15:17; Romani 13:10; I Giovanni 4:7)
Tutto qui il segreto. Tutti i segreti ridotti a questo. Tutte le cose sono una cosa sola.
Dal padre hai udito tutto questo. Nient’altro.
“Ho capito, Signore”
Il Tuo compito di Maestro si esaurisce nel rivelarmi, insegnarmi un’unica cosa.
L’unica cosa che non so.
L’unica cosa che non faccio.
L’unica cosa, però, per cui vale la pena di:
COMINCIARE……
Per voi in Cristo:
Cucco Aniello
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