IL TEMPO
(Leggendo il Salmo 90)
Il corso della storia, di quella generale come di quella più nostra e personale, è legato al concetto di tempo e di eternità. Ognuno di noi ha un passato, vive un presente ed è in attesa di un futuro. Perciò non possiamo vivere senza pensare al tempo: in questa prospettiva ci è di grande aiuto la riflessione sviluppata da Mosè in questo Salmo nel quale egli collega il nostro tempo a Dio e all’eternità.
Il problema del tempo
“Rifugio di età in età” (v.1).
Mosè riconosce che la grazia, la misericordia, la protezione di Dio verso il popolo e verso il singolo non sono venute mai meno. Età del popolo (generazioni). Età del singolo (anni e periodi della vita)
“Da eternità a eternità Tu sei Dio” (v.2).
L’eternità viene enunciata come fosse suddivisa in due parti: al centro di essa sta il tempo della creazione che ha un inizio ed avrà una fine, ma che non condiziona l’ eternità in quanto vi è compreso e tanto meno l’autorità del creatore che era, è e rimane Dio, l’unico Dio.
Le affermazioni del salmista introducono il problema del “tempo” che cercherò di analizzare per sommi capi.
Nella Bibbia tempo ed eternità sono categorie che servono a dare un’idea del corso della storia.
La lingua greca ha a sua disposizione diversi vocaboli per esprimere i vari aspetti del tempo. Il più comune è :
1) AION, (eone) che significa anzitutto un lungo spazio di tempo. Se si riferisce al passato indica l’antichità remota oppure il tempo antico; se si rifà al futuro, aion può indicare l’eternità.
ETERNITÀ non è un concetto vago e sradicato, ma l’idea più completa di tempo, acquisita con l’esperienza. Dal punto di vista teologico l’eternità del tempo si addice a Dio creatore, mentre la provvisorietà è tipica dell’uomo, in quanto creatura.
2) CHRONOS, che indica per lo più la estensione lineare e quantitativa del tempo, lo spazio di tempo, la durata (tipico della concezione formale e scientifica). In questo contesto si collocano i concetti che esprimono uno spazio definito di tempo: anno, mese, giorno, ora, ecc.
3) KAIROS è il tempo definito dal punto di vista del contenuto, che, negativamente significa la crisi e positivamente l’occasione, la possibilità. Gli avverbi “ora” e “oggi” esprimono una concezione lineare del tempo nella sua attualità e nel Nuovo Testamento sono usati in senso qualificante, devono essere quindi raggruppati con Kairos.
È assai significativo che nel Nuovo Testamento, al tempo di Gesù, ha maggior importanza il concetto kairos, dal punto di vista del contenuto, che non il concetto formale chronos.
Sarebbe troppo lungo, anche se interessante, verificare la metodologia d’uso dei vari termini fatta dagli scrittori dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento legati ai vari concetti di tempo; mi limiterò ad alcuni accenni essenziali:
Innanzitutto l’orante Mosè sottolinea per sé stesso e per gli ascoltatori il concetto di brevità e caducità della vita evidenziando il rapporto di Dio eterno con il tempo: mille anni come un giorno!
Questa realtà suggerisce anche la capacità di Dio di “vedere”, come con gli occhi, i contenuti di mille anni, vale a dire tutti gli avvenimenti e tutti i sentimenti anche nascosti di tutti gli uomini!
Paolo dirà in seguito che Dio sottoponendosi ogni cosa sarà anche ogni cosa in tutti (1Co 15:28); il suo disegno di grazia e di salvezza si concretizzerà totalmente in un tempo (kairos) prestabilito ma fino ad oggi sconosciuto ad ogni creatura.
Ciò era ovviamente sconosciuto a Mosè al quale non era neppure rivelato il tempo ed il momento dell’intervento di Dio nella storia mediante Gesù Cristo; egli infatti invocava: “Ritorna Signore; fino a quando? Muoviti a pietà…saziaci della tua grazia” (vv. 13, 14).
Il profeta, il condottiero che aveva parlato con Dio, che aveva ricevuto la Legge mediante la quale aveva ammaestrato e condotto il suo popolo, sentiva profondamente l’esigenza del continuo intervento divino nella storia del suo popolo e sua personale; dirà Pietro:
“Intorno a questa salvezza indagarono e fecero ricerche i profeti, che profetizzarono sulla grazia a voi destinata. Essi cercavano di sapere l’epoca (il tempo) e le circostanze cui faceva riferimento lo Spirito di Cristo che era in loro…” (1P 1:10, 11).
Animato da quest’ansia Mosè preannuncia, invocando, l’intervento di Dio chiedendosi e chiedendo quale sarà il tempo (kairos) della sua azione. Questa azione si manifesterà in Gesù Cristo: Paolo dirà: “…quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò Suo Figlio…” (Ga 4:4).
Con la vita, ma soprattutto con la morte di Gesù, è scomparso il vecchio eone e con il nyn kairos, il tempo presente della vera giustizia di divina (Ro. 3:26) ha avuto inizio una nuova epoca.
In questo passo Paolo ci fa comprendere che il tempo passato, il vecchio eone, i tempi antichi, il successivo tempo della legge corrispondono in fondo al “tempo della sua pazienza”; una pazienza che ha anch’essa un termine nel tempo, vale a dire che l’eternità di Dio comprende il tempo in senso dinamico, cioè che Dio Eterno agisce nel tempo della Sua creazione: ha pazienza ma non una pazienza illimitata, ha anch’essa un termine che sfocia nella Giustizia, una giustizia sul peccato mediante l’espiazione compiuta da Gesù Cristo e che si estende come Salvezza verso tutti coloro che hanno fede in Lui.
Il tempo passato, il vecchio eone è chiamato anche il tempo della promessa, di un patto di anticipazione il cui segno era costituito dall’arcobaleno nel cielo (Ge 9:11-17) che preludeva “al proposito e alla grazia fatta in Cristo fin dall’eternità che è stata ora manifestata con l’apparizione del Salvatore nostro Cristo Gesù, il quale ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il vangelo” (2Ti 1:9, 10).
Queste affermazioni ci introducono nel concetto di eternità, di ciò che è eterno, aionios, che indica una qualità della vita : essa non avrà fine perché appartiene a Cristo, che è la vita: “Io sono la via, la verità, la VITA” (Gv 14:6); e non cesserà nonostante la morte del corpo.
Da osservare che nel Nuovo Testamento non si parla di una morte “eterna” ma di fuoco eterno e simili, perché il concetto di eternità è così intimamente legato alla vita, che anche la negazione della vita eterna è considera una rovina “vissuta”. Anche in questo caso eternità è un periodo di tempo infinito, vissuto coscientemente fino in fondo (Da 12:2, 3).
Da tutto ciò consegue che il tempo della salvezza non si è concluso con la morte di Gesù; se è vero che il tempo intermedio o tempo centrale è soprattutto quello nel quale lo “sposo” visse tra i suoi (Mr 2:19; At. 1:21), è altrettanto vero che avendo egli stesso parlato chiaramente di una fine del mondo non lontana (Mt 24) insediò così tutti i credenti in un intervallo di tempo che si estende dalla sua pasqua fino alla sua apparizione (parusia).
Cuore saggio
Mosè, nella sua preghiera, ci richiama a questo tempo dicendo:
“Insegnaci dunque a contar bene i nostri giorni, per acquistare un cuore saggio” (v. 12).
La consapevolezza dell’eternità acquisita con la fede in Cristo non deve farci dimenticare che il tempo della vita che ci è dato in questa terra in questo tempo appartengono anch’essi all’eternità di Dio pur nella loro caducità e brevità.
Il nostro tempo è il tempo della Chiesa, (Kronos) il tempo della testimonianza il tempo dell’opera dello Spirito, il tempo della responsabilità e della obbedienza dei credenti.
Significative sono le parole con le quali Pietro esorta i credenti a comportarsi con timore “durante il tempo del loro pellegrinaggio” (1P 1:17).
Il pellegrinare conferisce l’idea di una partenza e di un cammino per raggiungere una mèta. La mèta per la nostra vita l’ha raggiunta Cristo, noi dobbiamo raggiungere la mèta del nostro tempo, dei “nostri” giorni in coerenza alla nuova vita che ci è stata donata.
Ancora Pietro esorta i credenti a “consacrare il tempo che resta da vivere nella carne, non più alle passioni degli uomini, ma alla volontà di Dio:”basta con il tempo trascorso a soddisfare la volontà dei pagani” (1P 4:2, 3).
Per il credente ogni dovere si fonda sull’essere.
Siamo santi: dobbiamo santificarci.
Abbiamo ricevuto lo Spirito: dobbiamo camminare secondo lo Spirito.
Siamo redenti, liberati dalla potenza del peccato: dobbiamo combattere contro il peccato.
Poiché il credente sa di camminare tra la resurrezione di Cristo e la sua parusia, fra il compimento già verificatosi della “morte alla legge mediante il corpo di Cristo” (Ro 7:4), e quello finale che non ha ancora avuto luogo, sa anche di essere stato reso capace mediante “la legge dello spirito della vita in Cristo” (Ro 8:2) di vivere questo tempo come adempimento del comandamento della legge portando frutto a Dio (Ro 8:4; 7:4).
Ciò ci impegna quotidianamente in ogni momento, in ogni ora, in ogni tempo ad attuare la volontà di Dio come parti singole del corpo di Cristo secondo i doni ricevuti ed a riconoscere i tempi e le situazioni nelle quali la Chiesa è coinvolta.
“Contare i nostri giorni” ammaestrati da Dio, secondo la preghiera di Mosè, rende possibile l’attuazione di questo cammino con “cuore saggio”.
Opera e gloria di Dio
Mosè diceva ancora:
“Si manifesti la tua opera ai tuoi servi e la tua gloria ai loro figli” (v. 16).
L’opera di Dio è sovente sotto i nostri occhi ma non sempre la sappiamo vedere.
Secondo un principio invalso nella società che ci circonda che promuove continuamente la semplificazione dei problemi riducendo i contenuti di ogni materia in sintesi succinte, che alle analisi attente preferisce gli slogan o le parole d’ordine, anche nelle chiese si tende sempre di più a filtrare la realtà che ci circonda secondo schemi semplificati, che danno sovente per scontato ciò che non lo è; se poi gli stessi vengono fatti coincidere con la “verità” e la “volontà” di Dio e sulla base degli stessi ci si esercita nel tentativo di svelare le astuzie dell’avversario è facile commettere errori anche gravi di valutazione che sono inevitabilmente seguiti da azioni non congruenti con la “vera” volontà di Dio.
Mosè, che ha ricevuto e promulgato la “Legge”, con la sua invocazione di ottenere un “cuore saggio” dimostra che, nonostante l’importanza della vocazione e del compito assegnatogli, sente la necessità di essere continuamente illuminato da Dio sia per amministrare la propria vita personale come per adempiere il mandato di condottiero e profeta del suo popolo.
Egli non pensa e non si comporta come un “dogmatico” intransigente e tanto meno come uno esaltato, bensì come autentico collaboratore di Dio, consapevole dell’ esercizio dell’ umiltà e della misericordia verso il suo popolo.
A queste condizioni Mosè sa di poter legittimamente richiedere che l’opera di Dio sia rivelata a quelli, come lui, che lo servono e così di seguito anche ai “loro figli”.
L’opera di Dio, che Mosè supplica diventi manifesta, è, che nel giudizio di Dio, diventi visibile ed efficace la sua volontà di grazia e si riveli così la sua gloria alla generazione presente ed a quella futura.
Come ultimo desiderio e in giusto riconoscimento che, senza la benedizione di Dio l’opera dell’uomo resta inutile, Mosè chiede: “rendi stabile l’opera delle nostre mani”.
Egli contempla la vita dal lato divino: la grazia divina è la sola che conferisca contenuto alla vita e stabilità all’opera dell’uomo.
Ciò rimane valido anche nel tempo presente; tempo di grandi afflizioni e di grandi stravolgimenti dove tutto avviene all’insegna dell’instabilità e della provvisorietà.
Tutto il mondo è scosso da convulsioni in una contemporaneità che si manifesta sotto il segno dell’inevitabilità che stordisce le menti ed i cuori; ne consegue insicurezza e paura, quindi domanda variamente articolata di pace e sicurezza.
In questo contesto dove Dio è, sì, invocato ma poco o per niente obbedito, l’avversario propone le “sue” soluzioni che sono “normalmente” seducenti ed utilizza ogni mezzo e canale per impossessarsi della mente e del cuore dell’uomo anche del credente; dirà infatti Gesù: “sorgeranno falsi cristi e falsi profeti e faranno grandi segni e prodigi da sedurre, se possibile, anche gli eletti” (Mt 24:24).
Il cristianesimo è carente di spirito di profezia, per questo le chiese oscillano fra esaltazione e paura, ottimismo e pessimismo.
Nell’Occidente “cristiano” la paura è ormai la compagna e cattiva consigliera delle nazioni.
Anche le chiese ne sono determinate: paura di perdere comode posizioni cui consegue l’ansia di acquisirne altre incrementando sempre di più la propria influenza.
Il cristianesimo ormai trasformato in “civiltà” ricca di “conoscenza” e di “valori” si esprime attraverso confessioni e chiese che sono sempre più alla ricerca anche della ricchezza economica e finanziaria, il che dimostra la loro intrinseca debolezza e fragilità di fede.
Non a caso nell’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse, nei primi capitoli viene ripetuto: “Chi ha orecchi ascolti ciò che lo Spirito dice alla chiese” (Ap 2:7, 11, 17, 29; 3:6, 13, 22). In modo particolare alla chiesa di Filadelfia viene detto: “Pur avendo poca forza, hai serbato la mia parola e non hai rinnegato il mio nome… tieni fermamente quello che hai” (Ap 3:8, 11).
In questo giudizio dobbiamo riconoscerci e seguire l’esortazione con fermezza e vigorosa fiducia evitando la trappola della ricchezza di denaro e di potere in cui buona parte del cristianesimo è caduta (Ap 3:17); solo così “l’opera delle nostre mani”, per Grazia Sua, risulterà stabile e duratura.
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