IL TALLONE D’ACHILLE DEL CRISTIANESIMO
Il tallone d’Achille del cristianesimo è il grave soggettivismo. Tutto ciò non è forse confermato dai fatti? Non vediamo forse rifiorire un pò ovunque la cara nozione soggettivista di “sentimento religioso”? A causa dei sentimenti pensiamo che Dio ci abbia introdotti nel Suo regno solo per farci una gioia straordinaria e completa; invece no, il Suo scopo è quello di portarci a sperimentare una completa identificazione con Gesù Cristo.
Si arriva a credere che Dio ricompensi la nostra fede, ma dobbiamo convincerci che la fede non ci fa acquistare alcun merito; essa ci mette in un giusto rapporto con Dio e dà a Lui la possibilità di agire in noi.
Si vive soltanto limitandoci a godere sentimentalmente le Sue benedizioni.
Dal punto di vista umano, le ambizioni che abbiamo riguardano noi stessi, ma nella vita cristiana non abbiamo mète personali da raggiungere. Non siamo più disposti a far schiacciare da Dio le nostre ambizioni personali, a far distruggere le nostre prese di posizione particolari. Ci teniamo abbarbicati alle nostre idee personali per seguirle a quel che vogliamo essere.
Dio non dà corda alle nostre idee preconcette, anzi le mortifica e le elimina.
Oggi si sente molto parlare delle nostre decisioni per Cristo, della nostra ferma determinazione di essere cristiani, delle nostre prese di posizione per questo o per quello, ma l’aspetto che vien posto in risalto nella Parola è la pressione che Dio esercita sull’uomo. Si è fedeli al lavoro, al servizio, a tutto, ma senza essere fedeli a Gesù Cristo. Essi fanno di Dio una macchina dispensatrice di benedizioni per gli uomini. Ma, in realtà, secondo il concetto della Parola, non si deve lavorare per Dio, ma si deve esserGli così fedeli che Egli possa operare servendosi di noi. Il più grande nemico che abbia Gesù Cristo è il concetto del lavoro pratico. È un concetto che non proviene dalla Parola, ma dai sistemi del mondo; mette tutta l’importanza su un’energia inesausta e un’attività incessante, ma non sulla vita intima con Dio. Dobbiamo quindi liberarci dalla piaga dello spirito di attivismo, caratteristica dell’epoca religiosa in cui viviamo. Il servizio per Gesù è il più pericoloso rivale della nostra devozione. Infatti servire è più facile che essere consumati, svuotati fino alla feccia, fino al fondo di noi stessi. L’unico scopo della risposta al richiamo di Dio è quello di rispondere alla Sua richiesta, e non quello di fare qualche cosa per Lui. Il nostro mandato non è di combattere per Dio, ma di essere Suoi strumenti nelle Sue battaglie.
“Andate dunque…” – “andare” significa semplicemente vivere. Gesù non disse: “Andate a Gerusalemme, in Giudea e Samaria”, ma disse: “Voi mi sarete testimoni” in quei luoghi.
“Se voi dimorate in Me e se le Mie parole dimorano in voi…” – così deve procedere il cammino nella nostra vita personale. Non fa nessuna differenza il luogo dove siamo destinati; Dio programma i nostri movimenti.
A causa del sentimentalismo e del buonismo umano, il cristiano corre sempre il rischio di diventare “dispensatori di provvidenza” e cioè persone che interferiscono in ciò che Dio ha preordinato per gli altri. Vedi soffrire una persona e dici: “Basta con quella sofferenza. Farò io qualche cosa per alleviarla”. Così facendo ti opponi a quello che Dio permette, tanto che Egli deve dirti: “Che t’importa?”. Spesso interferiamo nella vita di un altro, o proponiamo cose che non sta a noi di proporre, o dare consigli quando non abbiamo alcun diritto di consigliare. Se si diventa assolutamente indispensabile a qualcuno, vuol dire che si è allontanati dal proposito di Dio.
Spesso si diventa cristiani per abitudine o per una sorta di scrupolo psicologico e pseudoreligioso più che per convinzione e per un genuino e appassionato trasporto spirituale, siamo credenti più per un bisogno di natura consolatoria che per la certezza esistenziale di una reale presenza divina.
A causa del soggettivismo e del sentimento religioso, la predicazione è basata sul concetto che Dio è nostro Padre e ci perdonerà solo perché ci ama. Ciò non corrisponde a quanto Gesù ci ha rivelato su Dio, e farebbe della croce un evento inutile. Stiamo attenti a non farci fuorviare da una visione di Dio come Padre così amorevole e indulgente che naturalmente ci perdonerà. L’unica base sulla quale Dio può perdonare è la tragedia tremenda della croce di Cristo, supporre che il perdono possa essere dato su qualsiasi altra base fuorché questa è una bestemmia. L’unica via per la quale Dio può perdonare il peccato e reintegrarci nel Suo favore, passa per la croce di Cristo; non c’è altra via. Non permettere mai che si faccia strada in te il pensiero che Gesù Cristo stia dalla nostra parte e contro Dio, per pietà e compassione di noi, e che Egli sia divenuto maledizione per noi in uno spirito di compatimento, di partecipazione alla nostra maledizione; Egli divenne maledizione per noi solo per decreto divino. La nostra parte è la convinzione di peccato; ed in dono ci sono dati la vergogna ed il pentimento. Il grande miracolo della grazia di Dio è il perdono di Dio, ma solo la morte di Gesù Cristo dà la possibilità alla natura di Dio di perdonare rimanendo fedele a sé stessa. Dire che Dio ci perdona perché è amore, è un senso pieno di superficialità. L’amore di Dio significa Calvario, e non di meno; l’amore di Dio si estrinseca sulla croce, e non altrove. Calpestiamo il sangue del Figlio di Dio se pensiamo di essere perdonati perché siamo dispiaciuti dei nostri peccati. L’unica spiegazione del perdono di Dio e dell’insondabile profondità del fatto che Egli non si ricorda più dei nostri peccati è la morte di Gesù Cristo.
Il sentimento religioso ha portato l’uomo ad avvicinarsi a Dio solo per la paura dell’inferno. Ma il perdono non comporta semplicemente che sono salvato dall’inferno e reso giusto per il cielo (nessun cristiano accetterebbe o dovrebbe accettare un perdono di questo genere), ma significa che sono perdonato e portato ad avere una relazione con Dio, creata di nuovo per me; significa che sono altresì portato all’identificazione con Dio in Cristo Gesù. La vita che Gesù ha donato è la comunione con Lui, per essere Uno con Lui e per conoscere Dio; è questa la mèta eterna del cristiano.
Il sentimentalismo religioso ha portato a cullare il cristiano sulla serenità, sula tranquillità, che è la buona coscienza di coloro che sono puntualmente dediti alle pratiche religiose o che assolvono i propri compiti religiosi, ma ciò distorce il senso della vita cristiana che il senso del conflitto interiore, del contrasto interno alla coscienza morale e dell’autocoscienza, la necessità di una dura e costante lotta spirituale contro errori e peccati che tendono a riprodursi subdolamente persino nelle coscienze più attente ed esercitate, contro quello stesso modo abitudinario e approssimativo di evitare il male o di compiere il bene che ci fa forse sentire in pace ma non ci consente di essere in pace.
La pace di Cristo non è una pace a buon mercato, non è una pace per chi si sforza di vivere da persona rispettabile e stimata da tutti o da tutti coloro che “contano” o che possono essere utili, ma è una pace che impone di mettere in discussione persino le certezze più consolidate della nostra esistenza,
pace di Cristo non esclude ma presuppone il conflitto, la divisione interiore, la crisi psicologica e il combattimento.
I cristiani ad acqua di rose, impediscono alla Parola di Dio di turbare beneficamente le menti mettendo in discussione le certezze e di scuotere energicamente la coscienza. Si legge e si studia la Parola solo per nascosti bisogni individuali di gratificazione psicologica. Appena ascoltano parole che turbano la loro facendo smuovere i propri preconcetti, lungi dal poter essere oggettivamente riprovato, troppe volte si manifesta la meschinità, l’invidia, la gelosia, lo spirito di rivalità e di contesa, e si tende a collidere, con nostre abitudini mentali sbagliate e convinzioni personali che sono sempre infondate, il mormorío contro tutto ciò che non vogliamo capire semplicemente perché opposto a prerogative e ad aspettative egoistiche e presuntuose, illusorie e ingiustificate, cui si è tuttavia attaccati e a cui non vorrà rinunciare. Tutto questo si configura come peccato grave agli occhi di Dio e come peccato lesivo dell’unità degli stessi cristiani nella verità.
I cristiani mormoratori, cioè i criticoni di professione e non di rado anche schiavi dei loro vizi o delle loro passioni peccaminose, purtroppo, sono sempre esistiti e hanno sempre cercato, come continuano a cercare ancor oggi, con la loro malizia e la loro faziosità anche religiosa o dottrinaria, strumentalizzando la Parola per sostenere le proprie vedute personali, di creare divisioni.
Viene frequentemente infranto l’ottavo comandamento, che proibisce di dire falsa testimonianza e quindi di calunniare, adulare, di esprimere giudizi e sospetti avventati, di mentire in sostanza senza freni e senza ritegno, e pertanto anche di mormorare contro altri nascostamente. Tutte le volte che mormoriamo e facciamo opera di parziale o totale detrazione, mettendo in evidenza i peccati e i difetti altrui e in modo del tutto malevolo ed arbitrario, noi pecchiamo contro gli uomini e contro Dio.
Il tallone d’Achille del cristianesimo è il credere in Dio superficialmente, emotivamente, parzialmente, ambiguamente, formalisticamente, illusoriamente, scaramanticamente, ipocritamente.
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